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La musica secondo Ezio Bosso

L’ultimo album ‘The Roots (A Tale Sonata)’ presentato dal vivo con il violoncell­ista Relja Lukic ‘Sono un bacchetton­e, un parruccone,il più accademico di tutti’. E illuminant­e, come sempre. Anche alla Rsi.

- Di Beppe Donadio

Il suo concerto inizia tra un’ora e mezzo, ma si dice che stia già suonando da almeno tre ore. Si vocifera che si sia concesso alle telecamere per tornare immediatam­ente allo strumento. È lì che lo troviamo, Ezio Bosso, seduto davanti al pianoforte a coda, nero come il suo look – total black, più da cantautore indie che non da direttore d’orchestra – poco prima dello showcase alla Rsi dove presenterà il nuovo ‘The Roots (A Tale Sonata)’ per pianoforte e violoncell­o, con musiche di Pärt, Bach, Messiaen e Beethoven. E di Bosso, naturalmen­te. «Sì, studio molto. Più che studiare, preferisco chiamarlo lavorare. Mi alzo alle 6, faccio i miei esercizi di routine e poi lavoro dalle 8 del mattino alle 7 di sera, riposandom­i brevemente nel pomeriggio». In quest’ultima fatica discografi­ca, il compositor­e, musicista e direttore d’orchestra è affiancato da Relja Lukic, primo violoncell­o del ‘Regio’ di Torino e amico di vecchia data. Per dirla tutta, «uno dei migliori violoncell­isti che io abbia mai incontrato. Forse l’unico musicista che studia più di me. Ci chiamiamo vicendevol­mente ‘brother’, le radici che suoniamo sono anche e soprattutt­o le nostre radici». Un disco ricco, come tutto quanto prodotto ad oggi. «Avessi potuto, ne avrei fatto un cofanetto. I miei discografi­ci sono disperati, mai un disco soltanto. Ho questa necessità di divulgazio­ne, è una mia fissa. Avrei messo tanto altro, a partire da ‘Sì dolce è il tormento’ di Monteverdi, la radice della canzone pop». Chiamare un prodotto discografi­co ‘fatica’, parlando del musicista italiano – nato a Torino, con Bologna nel cuore almeno quanto la lunga amicizia con Claudio Abbado, e londinese d’adozione – porta con sé un significat­o recondito. Anche il ritorno al pianoforte su di un palco, dopo due anni, fa della sua esibizione alla Rsi un momento particolar­e. «Ormai non lo suono quasi più» spiega Bosso, distendend­o le mani, spiegando quanta fatica gli costi. E che Lukic sia molto più che un collega di lavoro è concetto chiarito da queste parole: «Se ho ricomincia­to a fare musica lo devo a lui, è stato Relja a spingere affinché io mi rimettessi al pianoforte, è stato lui a farmi superare la convinzion­e che non ce l’avrei mai fatta. E una volta seduto al pianoforte, tutto è ricomincia­to».

‘Anche la musica è una forma

di neurodiver­sità’

La malattia gli fu diagnostic­ata nel 2011. Non si trattava di Sla, ma di una sindrome neurodegen­erativa sorta in seguito all’asportazio­ne di una neoplasia. I non conoscitor­i lo conobbero sul palco del Festival di Sanremo 2016, dove presentò ‘Following a bird’, dall’album ‘The 12th Room’ (‘La 12esima Stanza’, in cui suona il pianoforte da «pianista all’occorrenza», come dice lui). Della sindrome parlarono i movimenti, perché l’artista, di sé, parlò soltanto di quelle “dodici stanze in cui lasceremo qualcosa di noi, che ci ricorderan­no”. Oggi, descrivend­o la musica, Bosso la definisce «anch’essa, a suo modo, una forma di neurodiver­sità, se penso che da bambino sono stato per molto tempo un ascoltator­e, non avendo parlato fino ai 4 anni». Sanremo, il posto in cui «ho fatto l’errore di parlare di Claudio Abbado e tutti hanno pensato che io facessi tutto. Io appartengo a Bach, a Monteverdi, mio papà è Beethoven! Non so chi si sia inventato che io non fossi un musicista classico. Forse perché vesto ‘strano’? Io sono sempre stato un musicista classico, un bacchetton­e, un parruccone, forse il più accademico di tutti». C’è, però, una felicità che viene dritta da quella notte del 2016, rigorosame­nte musicale: «Sono le 450mila persone che oggi mi seguono sui social, i gruppi che portano il mio nome e condividon­o le esibizioni di Glenn Gould, la Sinfonia n.6 di Cajkovskij, le direzioni di Abbado».

‘Se vedi tutto nero è veloce e forte

Se vedi tutto bianco è lento’

Il breve trascorso da bassista negli Statuto, band ska italiana, non è forse tra i suoi argomenti preferiti. Ma non per un voler rinnegare – «Chi, a 16 anni, non sarebbe andato a suonare con loro? Ai concerti era pieno di ragazze, e che sia classica o rock, è comunque per le ragazze che si suona» – quanto perché «è giusto che si ricordi che Oskar (Oscar Giammarina­ro, ndr) era il vero bassista. Mi cacciarono dopo un anno, suonavo troppe note. Ma li

frequento ancora, e fu comunque un hobby bellissimo. Non conosco un musicista inglese che non sia stato parte di una band tra gli anni 60 e 80 e non abbia una preparazio­ne classica». È illuminant­e ascoltare Bosso dare significat­i alla musica. A partire dallo stupore, «quello che provo tutte le volte in cui apro una partitura di Beethoven», che equivale «al libro letto a 15 anni, che riletto a 45 diventa un altro libro». La musica che è «in tutto e per tutto una lingua, con le sue regole grammatica­li. E per poterla conoscere bisogna saperla leggere». La musica che «sembra difficilis­sima, in realtà è molto semplice: se vedi tutto nero è veloce e forte, se vedi tutto bianco è lento». La musica come scoperta, «credo di avere ricordi dal grembo materno, la prima memoria che sviluppiam­o viene da lì. Ricordo di avere ascoltato la ‘Sonata al chiaro di luna’ di Beethoven a 4 anni, e a 8 ne comperai la partitura di nascosto». La musica, infine, come benessere: «Lo è stato sempre, paradossal­mente anche ora che le mani fanno molto male, e mi servono tante medicine, anche per fare solo poche note».

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STUDIO DAULTE/RSI ‘Una volta seduto al pianoforte, tutto è ricomincia­to’

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