La Brexit tra capo e collo
Londra – È iniziato nel peggiore dei modi per Theresa May il confronto ai Comuni sul testo concordato con l’Unione europea sulla Brexit. Il suo governo è stato battuto sia sulla mozione che definisce “un oltraggio al parlamento” la mancata pubblicazione integrale del parere legale sulle conseguenze dell’intesa siglata a Bruxelles; sia su un emendamento destinato a legare le mani all’esecutivo su qualunque opzione ulteriore in caso di bocciatura l’11 dicembre. Quando cioè l’intesa, indicata da May come la sola raggiungibile con Bruxelles, dovrà affrontare l’ordalia di un passaggio parlamentare che si annuncia fatale. Le avvisaglie d’una battaglia difficilissima si sono presto confermate. Ma May non demorde: il popolo, ha detto, “ha già votato” nel referendum del 2016; e “dovere della politica è ora attuare la Brexit”. Per farlo le sole possibilità sono l’accordo raggiunto con l’Ue; o il “no deal”; o niente Brexit affatto. Giusto ieri, però, l’avvocato generale della Corte di giustizia europea ha riconosciuto a Londra il teorico diritto di ripensarci, volendo. E di revocare “unilateralmente” la sua stessa istanza di uscita dall’Unione, purché lo faccia entro la data indicata per l’uscita formale: il 29 marzo 2019. Nulla di più lontano dai pensieri di Theresa May. Costretta a digerire ieri la sconfitta sul parere legale e su un paio di emendamenti ostili, May sa del resto che la vera partita si giocherà l’11. Il suo invito a scegliere “nell’interesse nazionale”, e a non illudersi che Bruxelles possa offrire un accordo migliore non ha fatto breccia. Le opposizioni, a dispetto delle loro differenze, sparano a zero senza eccezioni. Il leader laburista Jeremy Corbyn ha evocato un Paese “più povero”, annunciando il voto contrario. Sente odore di voto anticipato, evidentemente.