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Lo stile che fa il classico

Intervista ad Alberto Casadei, autore di ‘Biologia della letteratur­a’, oggi a Bellinzona

- Di Ivo Silvestro

Perché alcune opere sono senza tempo? Perché affondano nel nostro corpo, ci spiega Casadei.

Il titolo, ‘Biologia della letteratur­a’, sembra alludere a un riduzionis­mo francament­e difficile da accettare. Tuttavia basta sfogliare il volume di Alberto Casadei, professore di Letteratur­a italiana all’Università di Pisa, per rendersi conto che non ci si limita a inserire la letteratur­a nell’evoluzioni­smo darwiniano o a descrivere l’arte come un insieme di reazioni neurocorpo­ree. «Le cose sono molto più complicate: non si spiega così perché Michelange­lo è Michelange­lo» ci dice Casadei che oggi, giovedì, alle 18 sarà ospite del Liceo di Bellinzona per presentare il suo libro.

Professore, come si può fare una biologia della letteratur­a?

Innanzitut­to bisogna intendersi sul valore di questi termini che sono molto ampi. Per biologia si intendono molte branche diverse di studio della realtà materiale, dalle cellule agli esseri viventi ai sistemi e agli ecosistemi. In particolar­e, c’è un settore che studia l’adattament­o degli esseri umani agli ambienti, un aspetto che viene definito ‘homificati­o’, e l’arte a mio avviso ha qualche motivo di nascere in questo adattament­o degli esseri umani all’ambiente intorno a loro e naturalmen­te tra di loro. Questo fanno i primi artisti che conosciamo, gli autori dei magnifici disegni rupestri o nelle caverne come Lascaux. Prendendo in esame questi aspetti e molti altri studiati largamente soprattuto nel mondo anglosasso­ne, cerco di fare vedere come le arti in genere, e la letteratur­a in particolar­e, prendano a fondamento delle propension­i biologiche ben riconoscib­ili – il ritmo, la capacità mimetica, la capacità metaforica: aspetti prima di tutto biologici – e le adattino.

Ma è più biologia o più letteratur­a? Nel senso, è un progresso della biologia o cambia anche il nostro modo di pensare la letteratur­a?

C’è una parte generale, teorica, in cui cerco di fare incontrare la biologia con gli esiti artistici. E questo mi ha consentito di interpreta­re un po’ meglio alcuni aspetti dell’arte che un po’ ci sorprendon­o. Per esempio, adesso siamo abituati a considerar­e artistica anche un’opera og-

gettivamen­te brutta – ci sono moltissime opere visive del Novecento che definiremm­o orrende – e questo giustifica la loro efficacia perché l’artista può voler comunicare dissonanze, non solo l’armonia come era nei tempi antichi. Questo ci fa capire di più i processi che stanno alla base della creazione di un’opera d’arte. Sul versante degli scienziati – soprattutt­o da parte di quelli che non vogliono “determinar­e l’arte”, i quali dal mio punto di vista sono un po’ troppo rigidi – è un vantaggio perché capiscono meglio come si possono raffinare queste propension­i biologiche.

Siamo quindi ben lontani da un approccio riduzionis­ta.

Questo ci tengo molto a sottolinea­rlo, perché è un’obiezione che mi viene fatta spesso – prima di leggere il libro. Ho voluto

fare un saggio in cui da studioso di letteratur­a cerco di capire come possiamo interpreta­re certi fenomeni biologici. Ma non perché l’arte si riduca a quei fenomeni, ma per capire come l’arte possa elaborarli.

E al centro di questa analisi troviamo il concetto di stile.

È al centro della triade del sottotitol­o del libro: “il corpo” – la dimensione biologica che dobbiamo conoscere per partire col piede giusto –, “lo stile” e poi “la storia”, perché gli stili cambiano nel tempo. Lo stile è al centro perché non è, come si legge sui dizionari, l’uso di determinat­i tratti formali più o meno riconoscib­ili: quello è l’ornamento. Lo stile è qualcosa d’altro e in genere lo spiego con un film molto noto: ‘Schindler’s list’ di Spielberg. Tutto in bianco e nero, ha un unico elemento coloristic­o: il

cappotto della bambina ebrea che vaga nel ghetto; cappotto che poi rivediamo, sempre unico elemento colorato, in una catasta di corpi, e chiunque capisce il destino della bambina. L’elemento stilistico, qui, è l’attrattore: un unico elemento colorato non può non attrarci, è un fatto biologico. Il regista ha poi collegato questo elemento stilistico a una parabola. Perché lo stile veicola dei contenuti, non è una questione meramente formale ma contenutis­ticoformal­e che muta nel tempo: se vediamo le cose in un modo invece che in un altro, cambia il contenuto.

Muta nel tempo, però abbiamo i classici che sono senza tempo perché universali. O forse dovremmo dire ‘perché biologici.’

Se ci pensiamo, il fatto che esistano opere classiche – che possiamo rileggere a distanza di centinaia o migliaia di anni – è singolare, visto che l’opera vive di materia storica. Perché dovremmo essere così interessat­i a Omero quando tutto il nostro mondo è cambiato? In realtà i grandi classici – e quelli davvero universali si riducono davvero a pochi e Dante è uno di questi – riescono a veicolare i sensi profondi che vanno a toccare degli elementi biologico-cognitivi che a noi continuano a sembrare moderni. Il classico non è, come dice Calvino, un testo che non ha ancora finito di dire quello che ha da dire – d’accordo, ma perché quello sì e quell’altro no? – ma un testo che al suo interno ha intercetta­to delle propension­i biologiche e le ha fatte diventare materia del testo. Dante ha un immaginari­o quasi cinematogr­afico: creava delle scene e le montava.

Era il suo stile.

Esatto. Se facciamo un confronto, Boccaccio non era capace di questo montaggio e aveva bisogno di pagine e pagine per dire una cosa per la quale a Dante bastavano due terzine. Questo è lo stile, la riconoscib­ilità di un modo di interpreta­re la realtà che ci può continuare a interessar­e.

Dante, quindi, non è un classico per il suo viaggio ultraterre­no…

È il modo in cui tutto questo viene trattato. Ci sono moltissimi altri viaggi nell’ultraterre­no prima e dopo Dante, per cui la materia più o meno sarebbe identica, ma di queste visioni non ci interessa più niente perché, mancando questa elaborazio­ne stilistica, si riducono a una serie di incontri con personaggi più o meno riconoscib­ili.

Quindi, scusi la provocazio­ne, potremmo usare il suo libro per scrivere la prossima ‘Divina Commedia’?

No, direi di no, anche perché non è un manuale pronto per l’uso. Ma, questo mi sento di dirlo, comprender­e meglio perché certi testi ci interessan­o più di altri può aiutare ad andare a lavorare in quei settori. Tuttavia, questo è importante dirlo, la storia modifica le percezioni: uno scrittore, adesso, non può ottenere gli stessi effetti di Dante scrivendo in terzine, perché le sue terzine erano una novità nel primo Trecento, adesso non più. Ma così come Dante è riuscito a ottenere qualcosa di efficace con determinat­e caratteris­tiche, possiamo provarci noi, nell’epoca di internet, costruendo qualcosa di totalmente diverso.

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Dante tra i contempora­nei Cavalcanti e Boccaccio (da ‘Ritratto di sei poeti toscani’ di Giorgio Vasari). Nel riquadro, Casadei

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