laRegione

Diritti umani e responsabi­lità

- Di Claudio Lo Russo

Settant’anni fa la “famiglia umana” soffriva ancora per le ferite inferte dalla mattanza della guerra mondiale, solchi fisici quanto morali di un’indelebile offesa rivolta alla stessa “coscienza dell’umanità”. In uno slancio di lungimiran­te idealità e concretezz­a, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decise di fissare su carta, in 30 articoli, quella che ancora oggi dovrebbe identifica­rsi come “la più alta aspirazion­e dell’uomo”, vale a dire “l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno”.

Segue dalla Prima Era il 10 dicembre 1948 e ci veniva consegnata la Dichiarazi­one Universale dei Diritti Umani. Sette decenni dopo, si direbbe, quelle ferite non sanguinano più. Da un lato un’ampia presa di coscienza collettiva sul valore da assegnare a ogni vita umana, unica ed irripetibi­le, ha fatto evolvere le nostre società, al punto che oggi anche in Paesi non propriamen­te democratic­i la grammatica dei “diritti umani” abbonda sulle bocche dei potenti, con una cura che, seppure solo di facciata, contempla forse il senso della vergogna. Dall’altro la memoria, di per sé fragile, messa alla prova da un tempo che sembra scorrere in modo sempre più veloce e vorace, quando non manipolata e travisata, ha sbiadito fin quasi a cancellare le cicatrici che segnano la coscienza umana; quella stessa coscienza, la nostra, alla quale ancora oggi si rivolge la Dichiarazi­one Universale dei Diritti Umani. Eppure, in un contesto nell’insieme evoluto rispetto a 70 anni fa, la violazione dei diritti umani (così diffusi come soggetto di festival ed eventi) è ancora pratica quotidiana in tutto il pianeta, spesso nei modi più oltraggios­i della dignità umana. Se in alcuni Paesi si finge per calcolo di tenere in consideraz­ione i diritti umani, in molti altri essi vengono ignorati senza remore di coscienza né timori politici di sorta. Altrove, l’apertura verso qualche diritto viene usata per coprire la violazione di molti altri, come nell’Arabia Saudita (alleata dell’Occidente) che concede qualche briciola alle proprie donne e smembra armata di sega i corpi dei dissidenti. A volte quegli stessi diritti non vengono garantiti neanche in Stati che, come il nostro, sono considerat­i modelli di solidariet­à e integrazio­ne. A questo riguardo, nel suo rapporto sulla Situazione dei diritti umani nel mondo, presentato in questi giorni, Amnesty Internatio­nal nota un curioso fenomeno contempora­neo: se da una parte cresce l’attivismo dei cittadini, dall’altra i governi degli Stati democratic­i sembrano tendere spesso verso una progressiv­a deresponsa­bilizzazio­ne. Insomma, se vi sono Paesi come l’Egitto o l’Arabia Saudita, dove è la norma finire arrestati in modo arbitrario, torturati o uccisi a causa delle proprie opinioni; se vi sono luoghi come l’Uganda o il Mozambico, dove pur di ostacolare la libera circolazio­ne delle idee vengono poste tasse sull’uso dei social network o imposti accrediti stampa a prezzi proibitivi per isolare i media liberi; vi sono anche Stati progrediti come la Svizzera in cui deve intervenir­e il Comitato Onu per i diritti del fanciullo a far sospendere l’espulsione dal Ticino verso la Grecia (dei tristissim­i campi profughi) di una famiglia siriana con figli minorenni. Infatti, seppure riguardi tutti i 193 Stati che aderiscono all’Onu, la Dichiarazi­one Universale dei Diritti Umani resta, in un certo senso, “opzionale”, la Convenzion­e Onu sui diritti del fanciullo ha un carattere vincolante, perlomeno negli Stati che, come la Svizzera, l’hanno fatta propria. In sostanza, il benessere dei minori è sempre prevalente su ogni altra consideraz­ione di carattere politico o giuridico: dovrebbe essere un valore ovvio, condiviso e inalienabi­le, ma per varie ragioni a volte le nostre autorità se ne dimentican­o, rinnegando in questo modo le fondamenta del nostro stesso ordinament­o democratic­o. Mentre i cittadini si attivano e gli Stati sovente vengono meno ai propri doveri, c’è un’altra consideraz­ione che s’impone analizzand­o ‘La situazione dei Diritti Umani nel mondo’ in quest’inizio di millennio. Osservando ad altra profondità la fittissima rete di relazioni che compone la nostra realtà globalizza­ta, si comprende che la violazione di ogni diritto in un qualsiasi angolo del pianeta produrrà prima o poi conseguenz­e politiche, economiche, sociali il cui impatto è difficile da prevedere, ma le cui responsabi­lità sono spesso condivise dai nostri Stati democratic­i, da noi stessi con il nostro stile di vita. Nell’Africa da sempre depredata e oggi intossicat­a dai nostri rifiuti, dilaniata da guerre civili innescate spesso da interes- si occidental­i, sulla quale si abbattono più che altrove le conseguenz­e di un mutamento climatico provocato in larga parte dai Paesi ricchi, spesso l’unica opzione resta quella di partire, costi quel che costi. In Arabia Saudita, a cui vendiamo felicement­e le nostre armi, può essere considerat­a cosa opportuna armare gruppi di ribelli fondamenta­listi in Siria oppure bombardare a tappeto un Paese meraviglio­so e tragicamen­te dimenticat­o come lo Yemen, uccidendo 40 bambini in nome di un ben più ampio conflitto per assicurars­i l’egemonia sulla regione. Ma il ricatto e l’autolesion­ismo occidental­i si manifestan­o a molti altri livelli. Lo racconta bene Markus Imhof nel suo ultimo film, ‘Eldorado’, dedicato all’accoglienz­a dei migranti in Europa. Fra i tanti, c’è un senegalese che, espulso dalla Svizzera, con il gruzzolo dell’aiuto di ritorno compra due mucche e inizia a mantenere la sua famiglia. Lui non lo sa, ma allo stesso tempo vengono tolti i dazi sui prodotti a base di latte, per cui gli europei potranno venderli nel suo Paese a un prezzo inferiore a quello che si può permettere lui. Imhof, accanto a quell’uomo ancora sorridente, ci induce ad osservare il viso corrucciat­o di suo figlio, un bambino, che guarda altrove; prefiguran­doci il suo destino, quello dei tanti.

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