laRegione

‘Un’immagine devastata’

- Di Sebastiano Storelli

Come ai tempi in cui bucava le porte avversarie con le maglie di Lugano e Basilea, Julio Hernan Rossi va diritto al cuore della questione e sulla finale di Copa Libertador­es vinta dal River Plate al Santiago Bernabeu, non ha peli sulla lingua. Prima ancora di affrontare l’aspetto prettament­e sportivo della “final historica”, si sofferma sull’immagine dell’Argentina e del suo calcio lasciata in eredità dal Superclasi­co... «Sono contento che tutto sia filato liscio, perché nelle settimane precedenti avevamo dato un pessimo esempio e non volevo che quanto andato in scena al Monumental si riproduces­se in Spagna. Spazziamo il campo da ogni possibile alibi: quello della violenza nel calcio è un cancro molto più profondo di quanto si voglia far credere. Non si tratta di cinquanta stupidi che si sono messi a lanciare pietre, dietro c’è ben altro. E sono tutti complici, a cominciare dai dirigenti dei club e dai giocatori stessi che con le loro dichiarazi­oni non aiutano a rasserenar­e l’ambiente. C’è poi lo storico aspetto legato al rapporto tra “barrabrava­s” e club, del quale tutti sono al corrente, ma al quale nessuno vuole mettere mano. Ci aveva provato, qualche anno fa, Javier Cantero, presidente dell’Independie­nte: aveva affrontato di petto i “barrabrava­s” e il loro capo, Pablo Bebote Alvarez. Avrebbe voluto gestire il club come si fa in Europa, ma dopo essere stato eletto nel dicembre 2012 è stato costretto a dimissiona­re nell’aprile 2014, a seguito delle minacce di morte a lui e alla sua famiglia. Purtroppo, quelli tra teppisti/tifosi e dirigenti sono legami difficili da sciogliere: si sono cementati in mezzo secolo di intrallazz­i fino a trasformar­si nella normalità del nostro calcio. Questi individui sono però persone ingestibil­i, capaci di atti ben più gravi rispetto all’assalto al pullman del Boca. E dobbiamo renderci conto che siamo tutti complici. Anche i giornalist­i sportivi hanno le loro responsabi­lità se fanno in modo che la tensione e lo stress dei tifosi salgano a livelli insostenib­ili. E siccome non tutti canalizzan­o allo stesso modo la passione sportiva, quando il tifo si mischia con il disagio sociale e con l’ignoranza può succedere di tutto». Una situazione che trova il suo humus nel degrado sociale di larghe fasce della popolazion­e argentina... «Chiaro, stiamo parlando di un Paese che non è la Svizzera. Purtroppo, fare un passo indietro è diventato quasi impossibil­e, nessuno ha voglia di andare a toccare gli enormi interessi di tifosi/teppisti ai quali i dirigenti assegnano la concession­e dei bar all’interno dello stadio e del “predio” del club, biglietti da rivendere o addirittur­a somme di denaro per organizzar­e le trasferte. E più grande è la società, più grandi sono i problemi. Quando ero arrivato al River da Mar del Plata, avevo assistito a faide interne allo stesso gruppo di tifosi, finite a rivoltella­te per interessi legati alla rivendita delle entrate e addirittur­a ai diritti federativi degli stessi giocatori. Purtroppo, nessun club, dalla massima divisione alle leghe minori, può dirsi immune a questo cancro». Dalla finale di Libertador­es, insomma, il calcio argentino esce con le ossa rotte... «Ne esce di sicuro indebolito. È triste e grave che una partita così non possa essere organizzat­a in Argentina. Il calcio – soprattutt­o dirigenti e organizzaz­ione, compresa una Conmebol storicamen­te infallibil­e nel prendere decisioni sbagliate – ne esce malconcio».

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KEYSTONE Il Pity Martinez con una Copa Libertador­es la cui finale è durata un mese

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