‘Un’immagine devastata’
Come ai tempi in cui bucava le porte avversarie con le maglie di Lugano e Basilea, Julio Hernan Rossi va diritto al cuore della questione e sulla finale di Copa Libertadores vinta dal River Plate al Santiago Bernabeu, non ha peli sulla lingua. Prima ancora di affrontare l’aspetto prettamente sportivo della “final historica”, si sofferma sull’immagine dell’Argentina e del suo calcio lasciata in eredità dal Superclasico... «Sono contento che tutto sia filato liscio, perché nelle settimane precedenti avevamo dato un pessimo esempio e non volevo che quanto andato in scena al Monumental si riproducesse in Spagna. Spazziamo il campo da ogni possibile alibi: quello della violenza nel calcio è un cancro molto più profondo di quanto si voglia far credere. Non si tratta di cinquanta stupidi che si sono messi a lanciare pietre, dietro c’è ben altro. E sono tutti complici, a cominciare dai dirigenti dei club e dai giocatori stessi che con le loro dichiarazioni non aiutano a rasserenare l’ambiente. C’è poi lo storico aspetto legato al rapporto tra “barrabravas” e club, del quale tutti sono al corrente, ma al quale nessuno vuole mettere mano. Ci aveva provato, qualche anno fa, Javier Cantero, presidente dell’Independiente: aveva affrontato di petto i “barrabravas” e il loro capo, Pablo Bebote Alvarez. Avrebbe voluto gestire il club come si fa in Europa, ma dopo essere stato eletto nel dicembre 2012 è stato costretto a dimissionare nell’aprile 2014, a seguito delle minacce di morte a lui e alla sua famiglia. Purtroppo, quelli tra teppisti/tifosi e dirigenti sono legami difficili da sciogliere: si sono cementati in mezzo secolo di intrallazzi fino a trasformarsi nella normalità del nostro calcio. Questi individui sono però persone ingestibili, capaci di atti ben più gravi rispetto all’assalto al pullman del Boca. E dobbiamo renderci conto che siamo tutti complici. Anche i giornalisti sportivi hanno le loro responsabilità se fanno in modo che la tensione e lo stress dei tifosi salgano a livelli insostenibili. E siccome non tutti canalizzano allo stesso modo la passione sportiva, quando il tifo si mischia con il disagio sociale e con l’ignoranza può succedere di tutto». Una situazione che trova il suo humus nel degrado sociale di larghe fasce della popolazione argentina... «Chiaro, stiamo parlando di un Paese che non è la Svizzera. Purtroppo, fare un passo indietro è diventato quasi impossibile, nessuno ha voglia di andare a toccare gli enormi interessi di tifosi/teppisti ai quali i dirigenti assegnano la concessione dei bar all’interno dello stadio e del “predio” del club, biglietti da rivendere o addirittura somme di denaro per organizzare le trasferte. E più grande è la società, più grandi sono i problemi. Quando ero arrivato al River da Mar del Plata, avevo assistito a faide interne allo stesso gruppo di tifosi, finite a rivoltellate per interessi legati alla rivendita delle entrate e addirittura ai diritti federativi degli stessi giocatori. Purtroppo, nessun club, dalla massima divisione alle leghe minori, può dirsi immune a questo cancro». Dalla finale di Libertadores, insomma, il calcio argentino esce con le ossa rotte... «Ne esce di sicuro indebolito. È triste e grave che una partita così non possa essere organizzata in Argentina. Il calcio – soprattutto dirigenti e organizzazione, compresa una Conmebol storicamente infallibile nel prendere decisioni sbagliate – ne esce malconcio».