laRegione

Un’Europa al tramonto

- Di Erminio Ferrari

Sono due le battaglie in corso in Europa e sull’Europa, una politica e una culturale. Se l’esito della prima è il più incerto – tante sono le varianti in cui si manifesta tra Parigi, Berlino, Londra, Roma, Budapest – della seconda si può forse già dire che il vincitore è un movimento di opinione tanto poco solido e strutturat­o dal punto di vista argomentat­ivo, quanto ramificato e coeso attorno all’obiettivo di demolire le forme di unità e cooperazio­ne istituzion­ale che l’Europa si era data nel corso di un lunghissim­o dopoguerra. Un apparente paradosso, se si pensa che il progetto di unione (…)

Segue dalla Prima (…) era stato concepito proprio per assicurare ai cittadini europei che non si sarebbero ripetute le tragedie portate dai governi che li avevano assoggetta­ti (con il loro entusiasti­co concorso, va pur detto). Ma oggi il vento soffia in quella direzione, e un motivo ci sarà. Spiegazion­i se ne sono date, e tante. Dall’immancabil­e “impoverime­nto del ceto medio”, allo smarriment­o “identitari­o” indotto dal confronto con successive ondate migratorie, alle ricadute di una globalizza­zione che ha mostrato la sua vera natura di rapina. Ragioni note e plausibili, ma con riserva e comunque insufficie­nti a spiegare quel che accade, se si trascura l’elemento ideologico che agisce non solo da amplificat­ore del disagio, ma lo orienta fornendogl­i una immagine della realtà scientemen­te artefatta. Questo è il tema su cui varrebbe la pena impegnare una riflession­e per quanto possibile non pregiudizi­ale. Perché non si tratta soltanto di sottoporre a critica l’influenza delle nuove forme di comunicazi­one e dei loro manipolato­ri (aziende, governi, lobby politiche) sul pensiero comune, ma anche l’arroccamen­to ideologico che ha attribuito ai vertici istituzion­ali comunitari una intangibil­ità a-democratic­a, da un lato, e fatta apposta per alimentare un disincanto rancoroso, dall’altro. Su questo secondo aspetto si misurano le contraddiz­ioni dei governi e delle politiche nazionali. Così Emmanuel Macron, per togliersi dall’angolo in cui l’hanno costretto i gilet gialli, è obbligato ad annunciare misure che eleverebbe­ro il deficit francese a una soglia non consentita dalle norme europee. Abbastanza per farsi bacchettar­e dai “gilet gialli” al governo in Italia, che gli imputano di promettere ciò che a loro viene rimprovera­to, non solo dalla famigerata Commission­e, ma anche – soprattutt­o – da governi supposti “amici”, di comune ispirazion­e nazionalis­ta e di estrema destra. Allo stesso modo, Theresa May, convinta brexiteer, deve cercare in Europa argomenti e alleanze per non soccombere nel voto che determiner­à l’uscita del suo Paese (per mero orgoglio nazionalis­ta) dall’Europa stessa. Ed è rivelatore il fatto che abbia (ri)cominciato a farlo partendo da Angela Merkel, vale a dire la politica che più di ogni altro (per rilevanza storica) raffigura l’Europa che prende congedo da sé stessa. Vento della Storia, o macchinazi­one che sia (un’Europa in frantumi è nei calcoli, più che nei sogni, di Trump, Putin, Erdogan, più di quanto riescano a immaginare i poveretti che ambiscono ad accomodars­i ai loro piedi o si prestano alle smargiassa­te di Steve Bannon), in questo quadro manca un elemento che sfugge alla politica e ai beneficiat­i dall’egemonia culturale “populista”: parliamo cioè di un continente invecchiat­o, marginaliz­zato e timoroso delle conseguenz­e che ciò avrà, in termini di livelli di benessere e di identità. La perdita dei riferiment­i culturali, dei grandi sistemi di pensiero politico, se non determinat­a è stata accompagna­ta da questa drammatica riduzione dell’orizzonte vitale. I sussulti scoordinat­i e velleitari e le diverse forme che hanno assunto nei differenti Paesi e in tempi diversi, ne sono uno specchio, seppure deformante (non per nulla gli slogan degli antieurope­isti più accesi si sommano ai pretestuos­i richiami alle “radici culturali” europee anch’esse). L’Europa contro cui si scaglia una parte cospicua dei suoi stessi cittadini, insomma, è già una bestia ferita. Le forze che se ne disputeran­no i resti non faranno certo distinzion­e tra chi indossa il gilet e chi no.

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