May disperare
La premier britannica evita la sfiducia, ma i Tories restano divisi e i negoziati con l’Ue ingarbugliati 200 voti a suo favore contro 117 contrari fra i deputati conservatori, in cambio della promessa di non ricandidarsi alle prossime elezioni
Londra – Alla fine ha portato a casa la pelle. Con 200 voti a suo favore (63%) contro 117 contrari, Theresa May ha superato il voto di sfiducia voluto dalla fronda dei suoi colleghi di partito. Sarà dunque ancora lei a proseguire i negoziati per la Brexit sul doppio fronte di Bruxelles e Westminster; anche se avere contro un conservatore su tre - e la stragrande maggioranza di quanti fra costoro non hanno una poltrona in governo - vuol dire ripartire da una posizione di significativa debolezza. Per guadagnarsi il sostegno dei deputati tory in una fase tanto cruciale, la premier britannica ha promesso in extremis che si dimetterà prima delle elezioni del 2022, sia pure senza specificare esattamente quando. Come dire: fatemi finire la partita, che poi vi lascio il pallone. La partita naturalmente è l’accordo con l’Unione Europea, la cui ratifica parlamentare (rinviata in extremis per evitare una bocciatura certa) potrebbe tornare a galla a gennaio come unica alternativa all’incombente del ‘no deal’. A tramare l’agguato contro May era stata l’ala dei brexiteers più radicali – guidata dal rampante Jacob Rees-Mogg e dietro le quinte da Boris Johnson – che dopo mesi di manovre e minacce era riuscita a mettere insieme le 48 lettere necessarie di deputati favorevoli alla mozione di sfiducia, pari al quorum richiesto del 15% del gruppo parlamentare. E a innescare la convocazione del voto da parte di Graham Brady, presidente del Comitato 1922, l’organismo che da quasi un secolo sovrintende alle spietate rese dei conti interne al Partito Conservatore. Un voto segreto, affidato al giudizio senz’appello dei 317 membri Tories titolari oggi d’un seggio alla Camera dei Comuni (May compresa). La premier ne era stata informata martedì sera, reduce dai colloqui supplementari di Bruxelles, Berlino e L’Aia alla ricerca di “rassicurazioni” aggiuntive sulla validità solo temporanea backstop: il meccanismo vincolante di garanzia sul confine aperto fra Irlanda e Irlanda del Nord che rende per ora indigeribile l’intesa ai dissidenti della sua maggioranza parlamentare. Aveva quindi rinunciato a una successiva tappa a Dublino e si era fermata a Londra, decisa ad “affrontare la sfida”. Prima del voto May ha esortato a evitare salti nel buio (cambiare leader ora “sarebbe irresponsabile”, le ha dato una mano il veterano Ken Clarke, deputato Tory eurofilo pronto ormai a riallinearsi alla sua strategia). Ma quello lanciato da May è stato anche un ultimatum: se salto io, i tempi necessari per dare vita a una nuova leadership imporranno di “rinviare o revocare” l’articolo 50 di notifica della Brexit. E far quindi slittare o saltare del tutto l’addio del Regno all’Ue fissato per il 29 marzo 2019. In buona sostanza May ha fatto leva sulla (presunta) assenza di alternative: salvo quella fra una proroga del suo mandato, residua garanzia dell’impegno a rispettare il risultato referendario del 2016, a escludere un referendum bis e a concludere nello stesso tempo un divorzio soft concordato; e una stagione “d’incertezza”, magari con l’arrivo a Downing Street del leader laburista Jeremy Corbyn, contrastato in un botta e risposta rovente al Question Time e additato ancora una volta ai Tories come il grande spauracchio. L’incertezza di ieri non ha mancato di suscitare trepidazioni sui mercati, a Bruxelles e nelle altre capitali europee. Dove c’è ancora chi spera di aiutare May a strappare una ratifica dell’accordo di novembre, se non altro per evitare l’horror vacui di una Brexit sospesa nel nulla. A cominciare dal premier irlandese Leo Varadkar, parte interessata come nessun’altra a un compromesso. Ma c’è anche chi, come Angela Merkel, mostra di essere sul punto di perdere la pazienza e ricorda che un’intesa sul tavolo esiste e nessun leader britannico, vecchio o nuovo, “può ritrattarla”. Mentre inizia a predisporre le carte per la bufera d’un epilogo “hard” se Londra non saprà darsi una regolata. Intanto Rees-Mogg, il grande sconfitto di ieri sera, si consola ricordando che anche Margaret Thatcher superò un voto di sfiducia, salvo poi doversi dimettere poco dopo. E sogna di segare il ramo sul quale anche lui è seduto.