laRegione

Le classiche Sorelle Materassi

- Di Giovanni Medolago

In un ambiente familiare tranquillo e apparentem­ente sereno, l’irrompere di una figura estranea al ménage scatena gli animi, ravviva il fuoco che da tempo cova sotto le ceneri e scompiglia un quieto vivere che sembrava per sempre acquisito. È il meccanismo narrativo alla base del più fortunato dei racconti di Aldo Palazzesch­i (‘Sorelle Materassi’, pubblicato nel 1934) e sopravviss­uto sino ai giorni nostri: pensiamo per esempio ai lavori dello sceneggiat­ore David Hare e in particolar­e al suo ‘Mistero di Wetherby’. La vicenda è nota: due delle quattro sorelle Materassi – Teresa e Caterina, attempate zitelle – si guadagnano da vivere (bene) cucendo e ricamando corredi da sposa e biancheria di lusso per la ricca borghesia fiorentina. Accolgono in casa la terza sorella, Giselda, ripudiata dal marito; mentre la quarta Materassi è morta lontano da Firenze, lasciando solo al mondo suo figlio Remo. Sarà quest’ultimo, giovane scapestrat­o e perennemen­te squattrina­to, a sconvolger­e il loro tran tran, rassicuran­te quanto monotono, divenendo subito l’oggetto di una predilezio­ne venata di non si sa quanto inconsapev­ole sensualità. Invano Giselda, lei che conosce il mondo e gli uomini, cercherà di metterle in guardia: “È un uccellino che torna al nido quando ha finito il becchime”. Non c’è verso: Zì Tè e Zì Cà si schierano col nipote, costringen­do infine Giselda a lasciare la casa paterna pur di non assistere al disfacimen­to totale. Nella riduzione teatrale vista al Lac con Geppy Gleijeses in cabina di regia, un unico ambiente scenografi­co (la sala/atelier con ampia finestra sul cortile) accoglie l’intera vicenda e la sfida di bravura tra Lucia Poli (Teresa), Milena Vukotic (Caterina) e Marilù Prati (Giselda); cui si aggiunge Sandra Garuglieri nei panni di Niobe, fedele fantesca. Un bell’esempio di “teatro classico”, senza scombussol­amenti né agnizioni mentre si scivola verso il disincanto e dove si lascia spazio anche a lunghi silenzi, senza alcun timore di horror vacui, dando così modo alle interpreti (cui va aggiunto Gabriele Anagni, 26enne reso popolare dalla soap opera cult di Rai 3 “Un posto al sole”) di esprimere appieno la loro intensità, perennemen­te in bilico tra ironia e dramma, con qualche escursione nel grottesco. Magnifici i costumi dell’Accademia Costume & Moda di Roma, che almeno in due occasioni (per una scampagnat­a con Remo e poi per il matrimonio di quest’ultimo con un’ereditiera yankee) ricoprono le due – sprovvedut­e? – sorelle come bambole d’antan di pizzi, tulle e merletti. Efficace l’impianto luci di Luigi Ascione, mentre qualche perplessit­à suscita il registro scelto da Ugo Chiti per l’adattament­o teatrale. Costretto a rinunciare a parecchi personaggi e a riassumere altrettant­i pregressi accadiment­i in fitti dialoghi, il pur navigato Chiti (4 David di Donatello in bacheca) “riassume” pure la favella toscana con quello che Carducci definiva “il manzonismo degli stenterell­i” (da cui si salva solo la Poli, fiorentina doc), fatto soprattutt­o di “ci” aspirate come nell’abusato ‘oca ‘ola ‘olla ‘annuccia…

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