Le classiche Sorelle Materassi
In un ambiente familiare tranquillo e apparentemente sereno, l’irrompere di una figura estranea al ménage scatena gli animi, ravviva il fuoco che da tempo cova sotto le ceneri e scompiglia un quieto vivere che sembrava per sempre acquisito. È il meccanismo narrativo alla base del più fortunato dei racconti di Aldo Palazzeschi (‘Sorelle Materassi’, pubblicato nel 1934) e sopravvissuto sino ai giorni nostri: pensiamo per esempio ai lavori dello sceneggiatore David Hare e in particolare al suo ‘Mistero di Wetherby’. La vicenda è nota: due delle quattro sorelle Materassi – Teresa e Caterina, attempate zitelle – si guadagnano da vivere (bene) cucendo e ricamando corredi da sposa e biancheria di lusso per la ricca borghesia fiorentina. Accolgono in casa la terza sorella, Giselda, ripudiata dal marito; mentre la quarta Materassi è morta lontano da Firenze, lasciando solo al mondo suo figlio Remo. Sarà quest’ultimo, giovane scapestrato e perennemente squattrinato, a sconvolgere il loro tran tran, rassicurante quanto monotono, divenendo subito l’oggetto di una predilezione venata di non si sa quanto inconsapevole sensualità. Invano Giselda, lei che conosce il mondo e gli uomini, cercherà di metterle in guardia: “È un uccellino che torna al nido quando ha finito il becchime”. Non c’è verso: Zì Tè e Zì Cà si schierano col nipote, costringendo infine Giselda a lasciare la casa paterna pur di non assistere al disfacimento totale. Nella riduzione teatrale vista al Lac con Geppy Gleijeses in cabina di regia, un unico ambiente scenografico (la sala/atelier con ampia finestra sul cortile) accoglie l’intera vicenda e la sfida di bravura tra Lucia Poli (Teresa), Milena Vukotic (Caterina) e Marilù Prati (Giselda); cui si aggiunge Sandra Garuglieri nei panni di Niobe, fedele fantesca. Un bell’esempio di “teatro classico”, senza scombussolamenti né agnizioni mentre si scivola verso il disincanto e dove si lascia spazio anche a lunghi silenzi, senza alcun timore di horror vacui, dando così modo alle interpreti (cui va aggiunto Gabriele Anagni, 26enne reso popolare dalla soap opera cult di Rai 3 “Un posto al sole”) di esprimere appieno la loro intensità, perennemente in bilico tra ironia e dramma, con qualche escursione nel grottesco. Magnifici i costumi dell’Accademia Costume & Moda di Roma, che almeno in due occasioni (per una scampagnata con Remo e poi per il matrimonio di quest’ultimo con un’ereditiera yankee) ricoprono le due – sprovvedute? – sorelle come bambole d’antan di pizzi, tulle e merletti. Efficace l’impianto luci di Luigi Ascione, mentre qualche perplessità suscita il registro scelto da Ugo Chiti per l’adattamento teatrale. Costretto a rinunciare a parecchi personaggi e a riassumere altrettanti pregressi accadimenti in fitti dialoghi, il pur navigato Chiti (4 David di Donatello in bacheca) “riassume” pure la favella toscana con quello che Carducci definiva “il manzonismo degli stenterelli” (da cui si salva solo la Poli, fiorentina doc), fatto soprattutto di “ci” aspirate come nell’abusato ‘oca ‘ola ‘olla ‘annuccia…