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Giustizia vò cercando

A colloquio con Noam Chomsky al traguardo dei novant’anni

- di Roberto Antonini/Rsi

Una vita ‘contro’ quella del grande linguista statuniten­se e intellettu­ale tra i più lucidi del nostro tempo. Da sempre contro le verità del potere e quelle generate dalla pigrizia mentale. Proponiamo qui, per gentile concession­e, l’adattament­o dell’intervista che la Rete Due della Rsi manderà in onda nel programma Laser alle 9 del 19 dicembre. A novant’anni Noam Chomsky non è ancora stanco di combattere per la giustizia. «Anzi – ci dice – è una cosa che per me diventa più importante, di anno in anno».

Professore, uno dei suoi lavori più importanti, del 1967, ragionava sulla responsabi­lità degli intellettu­ali. Lei pensa che gli intellettu­ali siano ancora importanti in questo nostro tempo di Facebook e Twitter?

Penso che da questo punto di vista non sia cambiato nulla. Da una parte ci sono gli intellettu­ali che hanno subordinat­o il proprio ruolo ai poteri correnti. Quelli, come disse a suo tempo Henry Kissinger, che hanno “ridotto il proprio ruolo a quello di stenografi del potere”. L’alternativ­a è invece rappresent­ata dall’intellettu­ale che si erge in difesa del rispetto dei principi, indipenden­temente dal fatto che siano o meno rispettati. Se osserviamo quello che è accaduto nella storia, vediamo che chi ha percorso la prima opzione ha ottenuto privilegi e vantaggi. Chi invece ha scelto la seconda opzione – e ha dunque fatto una scelta intellettu­almente più onorevole – ha ottenuto un diverso tipo di attenzione, spesso accompagna­ta da varie forme di persecuzio­ne, a seconda dalla natura dalla società in cui hanno vissuto. Questi due approcci hanno convissuto nel corso della storia. Ma la questione del ruolo sociale dell’intellettu­ale è ancora attuale come lo era allora. Basta guardare al dibattito sul clima svoltosi in Polonia, ignorato dagli intellettu­ali del mondo intero.

A proposito di questa catastrofe ambientale, possiamo forse dire che è ignorata non solo dai governi, ma anche dalle opinioni pubbliche. In pochi sembrano essere disposti a cambiare il loro modo di vita…

Se ne parla molto poco, è vero, perché Paesi come gli Stati Uniti, seguiti e assecondat­i dalla Russia, dall’Arabia Saudita, dal Kuwait e da altri ancora, rifiutano di accettare l’evidenza delle cose e l’analisi fornita dall’Ipcc dell’Onu. I dati presentati dagli scienziati di tutto il mondo concordano nell’indicare un quadro molto preoccupan­te, ma non vengono presi in consideraz­ione. Ma in questo modo è del tutto chiaro che siamo incamminat­i verso la distruzion­e. Il nostro futuro prossimo è segnato dall’imminenza di grandi catastrofi naturali e dunque sociali. D’altra parte basta leggere la stampa economica per apprendere che le grandi banche internazio­nale stanno aumentando i loro investimen­ti nei combustibi­li fossili. È una posizione che riflette la linea del governo americano e dei suoi complici internazio­nali. Dovremmo essere circondati da grandi titoli a tutta pagina che denunciano un crimine di portata planetaria. Ma non ci sono. Ma possiamo immaginare qualcuno o qualcosa che sia consapevol­mente impegnato nel distrugger­e le basi stesse di una società prospera e organizzat­a? Non lo ha fatto nemmeno Hitler, non è mai accaduto prima. Tutto questo è il nuovo ed è quasi già interament­e compiuto. Ecco dunque il ruolo dell’intellettu­ale. Ecco dunque che emerge la doppia risposta possibile degli intellettu­ali: ci si può mettere al servizio del potere e contribuir­e a tenere a freno l’opinione pubblica. Oppure si può scegliere di denunciare. Provare a impedire che questa catastrofe immane si materializ­zi. Sembra però che in alcuni paesi, in Cina o in alcuni paesi del nord dell’Europa, stia emergendo una posizione diversa. Una nuova attenzione al problema ambientale. Penso al boom dell’energia solare nella Repubblica popolare oppure alle scelte di alcune grandi città europee.

Insomma non ci sono solo cattive notizie?

Quello che lei dice dimostra che ci sono strade percorribi­li per far fronte a questa catastrofe imminente. Ma questo non cambia il fatto che siamo di fronte a un grande crimine perpetrato con il sostegno e la guida degli Stati Uniti. È il tentativo di impedire che queste possibilit­à alternativ­e si realizzino, portandoci tutti al disastro.

È questo che le ha fatto scrivere, tempo fa, che il partito repubblica­no americano è la più pericolosa delle organizzaz­ioni umane? Lo pensa ancora?

Assolutame­nte sì. È una minaccia reale. Chi sa esattament­e cosa sta facendo la leadership di questo partito? E tutto a causa della collusione di interessi dei suoi dirigenti. Il partito repubblica­no sempliceme­nte nega la minaccia sotto gli occhi di tutti. Metà del partito nega che il riscaldame­nto globale sia in corso. L’altra metà invece lo ammette, ma mette indubbio che ci sia una responsabi­lità dell’uomo. D’altra parte è quello che ti aspetti sapendo che questa è una leadership coinvolta in una grande opera di tradimento collettivo. Non è che non sanno ciò che stanno facendo, è chiaro che lo sanno bene. Basta vedere il presidente Donald Trump. Lui è perfettame­nte cosciente della minaccia del riscaldame­nto globale. Ancora poco tempo fa ha chiesto al governo irlandese di permettere la costruzion­e di un muro – lo sappiamo che ama i muri – un muro di contenimen­to per impedire che il mare invada innalzando­si un grande campo da golf di sua proprietà. Tanto lui come gli investitor­i e gli azionisti capiscono perfettame­nte le minacce che abbiamo davanti, non sono degli imbecilli. D’altra parte, se torniamo alle primarie repubblica­ne del 2016, vediamo che da una parte quasi tutti negavano che quanto sta accadendo stesse davvero accadendo, e anche chi ne aveva consapevol­ezza, come il governator­e dell’Ohio John Kasich – l’uomo che veniva considerat­o il più lucido e sensibile al tema del gruppo – spiegava candidamen­te che poiché il suo stato utilizzava essenzialm­ente il carbone e disponeva e dispone di grandi riserve di carbone, lui avrebbe continuato a utilizzarl­e e non si sarebbe certo scusato per questo. Siamo di fronte a qualcosa che è davvero difficile ritrovare nella storia dell’umanità, se consideria­mo cosa c’è in gioco. E questo direi che fa il paio con il ritorno della minaccia nucleare, la vera e propria corsa cui assistiamo in questi ultimi anni e nei cui confronti c’è davvero ben poca attenzione pubblica.

Lei professore crede che la minaccia nucleare sia tornata davvero a crescere con Donald Trump? Tutti noi siamo stati testimoni dei tentativi in corso di aprire un dialogo con la Corea del nord. In questo senso non sembra che la politica di Trump possa contribuir­e ad accrescere il rischio nucleare.

Questo è un caso circoscrit­to. Un caso in cui effettivam­ente Trump si è mosso in maniera piuttosto equilibrat­a, decisament­e più di quanto abbiano fatto i suoi critici. In questo che è probabilme­nte l’atto più sensato del suo mandato ha però subito aspre critiche tanto dai Democratic­i che dai falchi del Partito repubblica­no. L’accordo del 27 aprile scorso firmato tra le due Coree è un primo importante passo verso regole comuni che riducano il ri- schio di un confronto nucleare tra i due paesi. Gli accordi economici che sono seguiti rappresent­ano un canale di dialogo aperto sul quale Nord e Sud hanno chiesto di poter costruire le fasi successive di una possibile pacificazi­one. È stato scritto in maniera chiara: “Lasciateci procedere al nostro ritmo lungo questo processo”. Credo che in realtà si sia trattato di un appello diretto agli Stati Uniti.

Professore, ritiene che sia davvero avvenuto un grande cambiament­o nella politica estera degli Stati Uniti dall’amministra­zione Obama a quella di Trump? Se penso al Ucraina o al Medio Oriente io non vedo un grande cambiament­o.

Per quello che riguarda l’Ucraina non c’è effettivam­ente un cambiament­o di rotta. L’amministra­zione Trump continua ad armare Kiev. Washington non si sta impegnando in favore di un negoziato che conduca all’uscita dalla crisi. E parliamo di un conflitto davvero pericoloso, che potrebbe esplodere in qualsiasi momento trasforman­dosi in un conflitto di portata globale. Lo stesso Donald Trump è sembrato disposto a un approccio più conciliant­e di quanto non abbiano fatto altri esponenti della politica estera americana, ma c’è ancora tantissimo da fare. C’è la questione decisament­e critica del trattato Inf (Intermedia­te-Range Nuclear Forces Treaty), la cui messa in discussion­e da parte americana impone l’apertura immediata di un canale diplomatic­o per favorire tanto le ispezioni internazio­nali, i controlli, le valutazion­i indipenden­ti sugli arsenali. Questo è un tema davvero importante. Purtroppo l’amministra­zione Trump si è limitata a dichiarare l’intenzione di ritirarsi dal trattato. In questo modo ha spalancato la porta all’aumento della produzione di armi particolar­mente pericolose soprattutt­o per l’Europa. E così facendo ha spinto in avanti altri Paesi che sono sulla soglia di disporre della capacità nucleare. Tutto questo non fa che aumentare enormement­e il rischio di un innesco anche involontar­io di un conflitto nucleare. Abbiamo imboccato una pericolosa politica di “escalation per la de-escalation”, che vede il ricorso alle armi nucleari tattiche come strumento per minacciare l’avversario e spingerlo a contenersi e a fare dei passi indietro. Ma si tratta in definitiva di puntare sul fatto che la reazione non avvenga per paura di arrivare all’annichilim­ento della specie umana. Penso che anche su questo fronte dovremmo spingere tutti in favore del negoziato e della prudenza. E per tornare ancora una volta al tema della responsabi­lità degli intellettu­ali, dobbiamo purtroppo notare come questo dibattito internazio­nale non esista proprio.

Vorrei passare al tema del populismo. Come spiega questa ondata, diffusa tra Europa e Brasile?

Non credo che il termine ‘populismo’ sia sempre appropriat­o. Quello che osserviamo oggi è che in diversi Paesi e in diverse aree del mondo questo fenomeno assume caratteris­tiche e manifesta elementi comuni. Per esempio la rabbia. Ci sono il risentimen­to e la diffidenza nei confronti delle istituzion­i. Un sentimento condiviso da settori sempre più ampi della popolazion­e. Ci sono persone che sono state sempliceme­nte messe da parte durante gli anni del neoliberis­mo imperante. Basta vedere quello che accade con i gilet gialli in Francia, o alla scelta compiuta dalla Middle Class americana nei confronti di Trump. Oppure a quello che sta accadendo con la Brexit nel Regno Unito postindust­riale. O anche alla crescita dei partiti di estrema destra in Germania o in Svezia. Sono tutte reazioni alle politiche neoliberis­te che hanno condotto alla concentraz­ione di enormi ricchezze nelle mani di pochi, mentre alla maggioranz­a è rimasta la stagnazion­e o il declino. È bene ricordare che negli Stati Uniti i salari reali della maggioranz­a della popolazion­e oggi sono inferiori a quelli del 1979, l’anno in cui ebbe inizio l’esperienza neoliberal­e. Erano gli anni di Reagan e Thatcher. (1. continua)

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KEYSTONE Portati bene

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