Giustizia vò cercando
A colloquio con Noam Chomsky al traguardo dei novant’anni
Una vita ‘contro’ quella del grande linguista statunitense e intellettuale tra i più lucidi del nostro tempo. Da sempre contro le verità del potere e quelle generate dalla pigrizia mentale. Proponiamo qui, per gentile concessione, l’adattamento dell’intervista che la Rete Due della Rsi manderà in onda nel programma Laser alle 9 del 19 dicembre. A novant’anni Noam Chomsky non è ancora stanco di combattere per la giustizia. «Anzi – ci dice – è una cosa che per me diventa più importante, di anno in anno».
Professore, uno dei suoi lavori più importanti, del 1967, ragionava sulla responsabilità degli intellettuali. Lei pensa che gli intellettuali siano ancora importanti in questo nostro tempo di Facebook e Twitter?
Penso che da questo punto di vista non sia cambiato nulla. Da una parte ci sono gli intellettuali che hanno subordinato il proprio ruolo ai poteri correnti. Quelli, come disse a suo tempo Henry Kissinger, che hanno “ridotto il proprio ruolo a quello di stenografi del potere”. L’alternativa è invece rappresentata dall’intellettuale che si erge in difesa del rispetto dei principi, indipendentemente dal fatto che siano o meno rispettati. Se osserviamo quello che è accaduto nella storia, vediamo che chi ha percorso la prima opzione ha ottenuto privilegi e vantaggi. Chi invece ha scelto la seconda opzione – e ha dunque fatto una scelta intellettualmente più onorevole – ha ottenuto un diverso tipo di attenzione, spesso accompagnata da varie forme di persecuzione, a seconda dalla natura dalla società in cui hanno vissuto. Questi due approcci hanno convissuto nel corso della storia. Ma la questione del ruolo sociale dell’intellettuale è ancora attuale come lo era allora. Basta guardare al dibattito sul clima svoltosi in Polonia, ignorato dagli intellettuali del mondo intero.
A proposito di questa catastrofe ambientale, possiamo forse dire che è ignorata non solo dai governi, ma anche dalle opinioni pubbliche. In pochi sembrano essere disposti a cambiare il loro modo di vita…
Se ne parla molto poco, è vero, perché Paesi come gli Stati Uniti, seguiti e assecondati dalla Russia, dall’Arabia Saudita, dal Kuwait e da altri ancora, rifiutano di accettare l’evidenza delle cose e l’analisi fornita dall’Ipcc dell’Onu. I dati presentati dagli scienziati di tutto il mondo concordano nell’indicare un quadro molto preoccupante, ma non vengono presi in considerazione. Ma in questo modo è del tutto chiaro che siamo incamminati verso la distruzione. Il nostro futuro prossimo è segnato dall’imminenza di grandi catastrofi naturali e dunque sociali. D’altra parte basta leggere la stampa economica per apprendere che le grandi banche internazionale stanno aumentando i loro investimenti nei combustibili fossili. È una posizione che riflette la linea del governo americano e dei suoi complici internazionali. Dovremmo essere circondati da grandi titoli a tutta pagina che denunciano un crimine di portata planetaria. Ma non ci sono. Ma possiamo immaginare qualcuno o qualcosa che sia consapevolmente impegnato nel distruggere le basi stesse di una società prospera e organizzata? Non lo ha fatto nemmeno Hitler, non è mai accaduto prima. Tutto questo è il nuovo ed è quasi già interamente compiuto. Ecco dunque il ruolo dell’intellettuale. Ecco dunque che emerge la doppia risposta possibile degli intellettuali: ci si può mettere al servizio del potere e contribuire a tenere a freno l’opinione pubblica. Oppure si può scegliere di denunciare. Provare a impedire che questa catastrofe immane si materializzi. Sembra però che in alcuni paesi, in Cina o in alcuni paesi del nord dell’Europa, stia emergendo una posizione diversa. Una nuova attenzione al problema ambientale. Penso al boom dell’energia solare nella Repubblica popolare oppure alle scelte di alcune grandi città europee.
Insomma non ci sono solo cattive notizie?
Quello che lei dice dimostra che ci sono strade percorribili per far fronte a questa catastrofe imminente. Ma questo non cambia il fatto che siamo di fronte a un grande crimine perpetrato con il sostegno e la guida degli Stati Uniti. È il tentativo di impedire che queste possibilità alternative si realizzino, portandoci tutti al disastro.
È questo che le ha fatto scrivere, tempo fa, che il partito repubblicano americano è la più pericolosa delle organizzazioni umane? Lo pensa ancora?
Assolutamente sì. È una minaccia reale. Chi sa esattamente cosa sta facendo la leadership di questo partito? E tutto a causa della collusione di interessi dei suoi dirigenti. Il partito repubblicano semplicemente nega la minaccia sotto gli occhi di tutti. Metà del partito nega che il riscaldamento globale sia in corso. L’altra metà invece lo ammette, ma mette indubbio che ci sia una responsabilità dell’uomo. D’altra parte è quello che ti aspetti sapendo che questa è una leadership coinvolta in una grande opera di tradimento collettivo. Non è che non sanno ciò che stanno facendo, è chiaro che lo sanno bene. Basta vedere il presidente Donald Trump. Lui è perfettamente cosciente della minaccia del riscaldamento globale. Ancora poco tempo fa ha chiesto al governo irlandese di permettere la costruzione di un muro – lo sappiamo che ama i muri – un muro di contenimento per impedire che il mare invada innalzandosi un grande campo da golf di sua proprietà. Tanto lui come gli investitori e gli azionisti capiscono perfettamente le minacce che abbiamo davanti, non sono degli imbecilli. D’altra parte, se torniamo alle primarie repubblicane del 2016, vediamo che da una parte quasi tutti negavano che quanto sta accadendo stesse davvero accadendo, e anche chi ne aveva consapevolezza, come il governatore dell’Ohio John Kasich – l’uomo che veniva considerato il più lucido e sensibile al tema del gruppo – spiegava candidamente che poiché il suo stato utilizzava essenzialmente il carbone e disponeva e dispone di grandi riserve di carbone, lui avrebbe continuato a utilizzarle e non si sarebbe certo scusato per questo. Siamo di fronte a qualcosa che è davvero difficile ritrovare nella storia dell’umanità, se consideriamo cosa c’è in gioco. E questo direi che fa il paio con il ritorno della minaccia nucleare, la vera e propria corsa cui assistiamo in questi ultimi anni e nei cui confronti c’è davvero ben poca attenzione pubblica.
Lei professore crede che la minaccia nucleare sia tornata davvero a crescere con Donald Trump? Tutti noi siamo stati testimoni dei tentativi in corso di aprire un dialogo con la Corea del nord. In questo senso non sembra che la politica di Trump possa contribuire ad accrescere il rischio nucleare.
Questo è un caso circoscritto. Un caso in cui effettivamente Trump si è mosso in maniera piuttosto equilibrata, decisamente più di quanto abbiano fatto i suoi critici. In questo che è probabilmente l’atto più sensato del suo mandato ha però subito aspre critiche tanto dai Democratici che dai falchi del Partito repubblicano. L’accordo del 27 aprile scorso firmato tra le due Coree è un primo importante passo verso regole comuni che riducano il ri- schio di un confronto nucleare tra i due paesi. Gli accordi economici che sono seguiti rappresentano un canale di dialogo aperto sul quale Nord e Sud hanno chiesto di poter costruire le fasi successive di una possibile pacificazione. È stato scritto in maniera chiara: “Lasciateci procedere al nostro ritmo lungo questo processo”. Credo che in realtà si sia trattato di un appello diretto agli Stati Uniti.
Professore, ritiene che sia davvero avvenuto un grande cambiamento nella politica estera degli Stati Uniti dall’amministrazione Obama a quella di Trump? Se penso al Ucraina o al Medio Oriente io non vedo un grande cambiamento.
Per quello che riguarda l’Ucraina non c’è effettivamente un cambiamento di rotta. L’amministrazione Trump continua ad armare Kiev. Washington non si sta impegnando in favore di un negoziato che conduca all’uscita dalla crisi. E parliamo di un conflitto davvero pericoloso, che potrebbe esplodere in qualsiasi momento trasformandosi in un conflitto di portata globale. Lo stesso Donald Trump è sembrato disposto a un approccio più conciliante di quanto non abbiano fatto altri esponenti della politica estera americana, ma c’è ancora tantissimo da fare. C’è la questione decisamente critica del trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), la cui messa in discussione da parte americana impone l’apertura immediata di un canale diplomatico per favorire tanto le ispezioni internazionali, i controlli, le valutazioni indipendenti sugli arsenali. Questo è un tema davvero importante. Purtroppo l’amministrazione Trump si è limitata a dichiarare l’intenzione di ritirarsi dal trattato. In questo modo ha spalancato la porta all’aumento della produzione di armi particolarmente pericolose soprattutto per l’Europa. E così facendo ha spinto in avanti altri Paesi che sono sulla soglia di disporre della capacità nucleare. Tutto questo non fa che aumentare enormemente il rischio di un innesco anche involontario di un conflitto nucleare. Abbiamo imboccato una pericolosa politica di “escalation per la de-escalation”, che vede il ricorso alle armi nucleari tattiche come strumento per minacciare l’avversario e spingerlo a contenersi e a fare dei passi indietro. Ma si tratta in definitiva di puntare sul fatto che la reazione non avvenga per paura di arrivare all’annichilimento della specie umana. Penso che anche su questo fronte dovremmo spingere tutti in favore del negoziato e della prudenza. E per tornare ancora una volta al tema della responsabilità degli intellettuali, dobbiamo purtroppo notare come questo dibattito internazionale non esista proprio.
Vorrei passare al tema del populismo. Come spiega questa ondata, diffusa tra Europa e Brasile?
Non credo che il termine ‘populismo’ sia sempre appropriato. Quello che osserviamo oggi è che in diversi Paesi e in diverse aree del mondo questo fenomeno assume caratteristiche e manifesta elementi comuni. Per esempio la rabbia. Ci sono il risentimento e la diffidenza nei confronti delle istituzioni. Un sentimento condiviso da settori sempre più ampi della popolazione. Ci sono persone che sono state semplicemente messe da parte durante gli anni del neoliberismo imperante. Basta vedere quello che accade con i gilet gialli in Francia, o alla scelta compiuta dalla Middle Class americana nei confronti di Trump. Oppure a quello che sta accadendo con la Brexit nel Regno Unito postindustriale. O anche alla crescita dei partiti di estrema destra in Germania o in Svezia. Sono tutte reazioni alle politiche neoliberiste che hanno condotto alla concentrazione di enormi ricchezze nelle mani di pochi, mentre alla maggioranza è rimasta la stagnazione o il declino. È bene ricordare che negli Stati Uniti i salari reali della maggioranza della popolazione oggi sono inferiori a quelli del 1979, l’anno in cui ebbe inizio l’esperienza neoliberale. Erano gli anni di Reagan e Thatcher. (1. continua)