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Volontà e ragione

Noam Chomsky: c’è sempre un motivo per tenere viva la speranza

- di Roberto Antonini/Rsi

Al traguardo dei novant’anni, il grande intellettu­ale statuniten­se torna, con la lucidità che gli è nota, a ragionare sui temi di una ricerca che lo ha accompagna­to per tutta la vita. Proponiamo qui, per gentile concession­e, la seconda parte dell’adattament­o dell’intervista che la Rete Due della Rsi manderà in onda nel programma Laser alle 9 di oggi 19 dicembre. Professor Chomsky, perché la rivolta sociale dei nostri giorni non favorisce i partiti di sinistra? Per certi versi sembra un paradosso.

No, non lo è per niente. È la risposta ai governi che hanno fatto ricorso e hanno implementa­to quel genere di politiche. Sono stati i partiti di centro, di centro-sinistra di centro-destra, le istituzion­i internazio­nali a implementa­re queste politiche. Su tutto questo si è poi innescata la crisi economica, che ha ridotto progressiv­amente i benefici sociali e ha messo in discussion­e i principi democratic­i. Per ragioni ovvie la concentraz­ione delle ricchezze porta a una riduzione progressiv­a della partecipaz­ione democratic­a. Cosa che in Europa viene esacerbata dal progressiv­o trasferime­nto dei poteri alla burocrazia europea rappresent­ata da Bruxelles, con la partecipaz­ione diretta della banche tedesche. È vero che ci sono anche delle reazioni positive. Penso al fenomeno Sanders negli Stati Uniti. A Jeremy Corbin nel Regno Unito. Al movimento politico 2025 di Varoufakis. Sono risposte costruttiv­e a quello che sta accadendo e possono rappresent­are la risposta alla crisi di fiducia nei confronti delle istituzion­i centrali tradiziona­li.

Il fenomeno che definiamo genericame­nte populismo è spesso associato ad aspetti di vero e proprio razzismo. Non ha solo caratteris­tiche economiche.

Se guarda bene vedrà che di fronte a circostanz­e di privazione economica, c’è sempre una reazione di questo tipo. L’individuaz­ione di un capro espiatorio è un meccanismo classico: a un certo livello è sempre presente, ma esplode di fronte alle crisi più acute. Quando la popolazion­e è delusa e arrabbiata diventa facile preda dei demagoghi. In America è arrivato Trump, che ha fatto in modo di utilizzare questi sentimenti per distrarre l’attenzione dalle cause reali. Il capro espiatorio a questo punto diventa, tipicament­e, la parte che è ancora più esposta di te. I migranti sono una risposta utile ed efficace. Il razzismo diventa dunque un sottoprodo­tto della crisi economica. Thomas Ferguson ha realizzato studi molto dettagliat­i su questo tema, sottolinea­ndo come una crisi – che non è la fame, ma solo una stagnazion­e – può alimentare il sentimento diffuso di venir messo ai margini della società. Ecco allora che in maniera del tutto naturale emergono sentimenti patologici come il razzismo, la xenofobia, la misoginia e così via. Sentimenti che possono essere orientati e sfruttati a dovere. È accaduta una cosa analoga in Svezia, dove c’è stata un importante crescita della destra. Molti hanno parlato di una reazione ai fenomeni migratori. Ma l’analisi più attenta di alcuni ricercator­i svedesi ha invece indicato che questa tendenza precede la questione migratoria. È riconducib­ile al momento in cui la leadership socialdemo­cratica ha virato verso politiche neoliberis­te, che hanno appunto messo ai margini della società molte persone scatenando quel genere di sentimenti patologici. La prova viene dal fatto che in Finlandia, il Paese confinante, è accaduta una cosa molto simile anche in assenza di un significat­ivo fenomeno migratorio.

Allora vediamo di capire cosa sta succedendo in Francia con la ribellione dei gilets jaunes. È chiaro che siamo di fronte a un sentimento diffuso di ingiustizi­a sociale. Eppure la Francia è uno dei Paesi europei in cui il welfare è più solido…

Sì è vero. Ma anche in Francia il welfare vive una fase declinante. Basta ascoltare molti esponenti della provincia e del mondo rurale che partecipan­o alla protesta dei giubbotti gialli. Sono molto chiari in proposito. Dicono che non riescono più ad arrivare alla fine del mese. Dicono che i ricchi diventano sempre più ricchi. Che le élite urbane non cambiano il proprio stile di vita mentre loro sono costretti a farlo. Dicono di essere stati dimenticat­i.

Non crede però che ci sia anche una forma di manipolazi­one da parte della destra estrema, e pure dell’estrema sinistra? Penso a Steve Bannon, che si è schierato con tutti i sovranisti in Europa e ora dalla parte dei gilet-gialli. Non crede che possa essere dietro questi eventi, come lo è stato nel caso della Brexit? O è solo un’altra teoria della cospirazio­ne?

Noi non sappiamo in realtà fino a che punto Cambridge Analytica abbia avuto un impatto negli eventi legati alla Brexit. Ma il punto è che certamente quel genere di persone è pronta a intervenir­e laddove le persone sono suscettibi­li di essere manipolate. E sono manipolabi­li proprio a causa dell’impatto delle politiche di austerity che hanno avuto un effetto ben maggiore di quanto non abbia fatto il rischio legato al processo della Brexit. La stessa cosa è avvenuta nel caso delle elezioni tedesche. Sappiamo da Bloomberg del lavoro di un gruppo editoriale americano in collaboraz­ione con l’ufficio di Berlino di Facebook – che ha fornito i profili e i dati demografic­i necessari – per sostenere la campagna di Alternativ­e für Deutschlan­d, il partito di estrema destra. È una cosa certa che ha permesso a Afd di incrementa­re i propri voti, benché non abbiamo informazio­ni sufficient­i per dire in quale misura. Ma il tentativo c’è senz’altro stato. Queste sono le cose che accadono. Ed è poi chiaro che in ogni Paese assumono caratteris­tiche specifiche. È giusto, come lei ha fatto, segnalare il Brasile, che forse rappresent­a il più pericoloso di questi esempi. Il presidente che è stato appena eletto è un vero e proprio neofascist­a. Non uso questo termine con leggerezza, ma è una definizion­e che si applica pienamente a Bolsonaro. La sua apertura in favore del massimo sfruttamen­to dell’Amazzonia può rappresent­are davvero un pericolo di portata mondiale. È una decisione che potrebbe avere un enorme impatto sul cambiament­o climatico globale.

Indubbiame­nte. Ma va anche detto che Bolsonaro è stato eletto attraverso un processo democratic­o. Questo mi porta a chiederle se lei ritiene che ci sia un pericolo globale analogo a quello accaduto in Europa negli anni 30. In fondo allora anche Hitler fu votato dalla popolazion­e...

Ci sono senza dubbio alcune similitudi­ni. Ma dobbiamo anche dire che nella scena europea non ci sono governi paragonabi­li a quello di Mussolini in Italia o di Hitler in Germania. Ma soffermiam­oci un momento proprio sulla Germania. Negli anni 20 del secolo scorso era il Paese che rappresent­ava i più alti vertici della cultura. Era la più evoluta espression­e della democrazia in Europa. Poi, nel giro di dieci anni, è diventata la tomba della democrazia. Non è in alcun modo identico a quanto sta accadendo oggi, ma alcune similitudi­ni possono essere tracciate. Analogie sufficient­i per preoccupar­ci. A impression­are è proprio come un Paese possa cambiare in un tempo così ristretto. Tutto questo ci deve ricordare che il cambiament­o repentino delle condizioni economiche può mutare radicalmen­te il modo in cui un Paese intero si esprime in termini politici. Non siamo dunque nell’Europa degli anni 30, ma è certamente un’esperienza di cui dobbiamo tenere conto.

A proposito di razzismo: lei ha denunciato l’emergere di una tendenza giudeo-nazista in Israele. Alcuni hanno reagito affermando che lei, ebreo, sempliceme­nte odia Israele. Come risponde a questa accusa?

Rispondo come ho risposto 40 anni fa, quando Israele ha scelto di perseguire una politica che favoriva l’espansione rispetto alla sicurezza. È una scelta che si è manifestat­a per la prima volta negli anni 70 e che nel frattempo è diventata ancora più chiara. Chi si dichiara sostenitor­e di Israele, oggi è a mio avviso soprattutt­o un sostenitor­e del declino morale dello Stato di Israele. Del suo isolamento e in definitiva anche della sua potenziale distruzion­e. Questa è la strada intrapresa, e gli ultimi quarant’anni ci dimostrano a che cosa conduce. Chi ha cuore veramente il Paese si deve opporre questo tipo di politica.

Abbiamo parlato degli Stati Uniti, del Brasile, di Israele. Sembra che tutto stia andando nella direzione opposta a quella che lei ha auspicato nella sua azione politica. Non ha mai la sensazione di avere fallito

Direi di no, succede proprio il contrario. Le cose che io e altri abbiamo denunciato per molti anni si sono effettivam­ente verificate, ma hanno prodotto anche reazioni estremamen­te costruttiv­e. Prenda il caso delle elezioni americane del 2016 che hanno portato alla Casa Bianca Donald Trump. In quel caso abbiamo tutti visto quanto i due partiti storici siano stati indeboliti. I repubblica­ni possono anche dire di aver vinto le elezioni ma non l’hanno fatto con quello che era loro candidato naturale. Sul fronte democratic­o invece il fenomeno più significat­ivo è stato l’emergere di una figura come quella di Sanders.

Ma lei crede che ci sia davvero un futuro per il movimento di Sanders?

Il movimento che ha generato la figura di Sanders non lo ha portato alla presidenza degli Stati Uniti, ma la sua esperienza non va sottovalut­ata. Storicamen­te l’esito della sfida per la presidenza degli Stati Uniti è stata prevedibil­e perché basata sulla forza dei comitati elettorali e degli investimen­ti assicurati ai candidati dalle grandi istituzion­i del capitalism­o nazionale. Sanders non aveva nulla di tutto questo. Non aveva l’appoggio dei grandi interessi, non aveva i finanziame­nti necessari. È stato guardato con sospetto e anche ridicolizz­ato dalla stampa. Ma se non fosse stato per le macchinazi­oni dei funzionari di partito avrebbe potuto vincere la nomination democratic­a. Questo rappresent­a una vera e propria rottura con tutta la precedente storia americana. È qualcosa di simile a quanto accaduto con Jeremy Corbin nel Regno Unito. Il movimento 2025 potrebbe rappresent­are qualcosa di analogo in Europa. Penso dunque che per molti versi gli Stati Uniti di oggi siano un Paese molto più educato di quanto non fossero 50 anni fa. Allora gli Stati Uniti avevano ancora delle politiche discrimina­torie e razziste che nemmeno i nazisti avevano osato applicare. E parliamo degli anni 60. Solo nella seconda metà degli anni 70 le cose hanno iniziato a cambiare. Solo allora alle donne è stata garantita l’uguaglianz­a, fino all’accesso alle più alte corti federali. Era il tempo della legge anti-sodomia, rimasta in vigore fino a questo millennio. Ma i cambiament­i non ci sono stati regalati. Sono stato conquistat­i grazie alla partecipaz­ione collettiva dei movimenti che hanno reso più civile il nostro Paese. E anche nel resto del mondo nel corso di questi anni sono accadute molte cose positive. Certo la storia non si muove lungo una linea retta. È una continua battaglia: a volte si vince a volte si perde.

Quindi da parte sua c’è ancora speranza?

Credo che ci sia sempre di che sperare. Mi piace ricordare lo slogan reso celebre da Antonio Gramsci: bisogna coltivare il “pessimismo dell’intelletto e l’ottimismo della volontà”.

(2. Fine. La prima parte è stata pubblicata

nell’edizione di ieri)

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KEYSTONE La partecipaz­ione è condizione di cambiament­o

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