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Nun s’assottijja er tempo de Gioacchino Belli

- P. PETRONI

Lo scrittore Antonio Baldini parlò per primo di ‘Commedione’, alludendo al poema dantesco ma anche alla Commedia umana di Balzac, a proposito dell’insieme dei sonetti romaneschi di Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), mentre un linguista come Muzio Mazzocchi Alemanni non esitò a definire il poeta romano “un creatore linguistic­o come Joyce, un artista della parola per la parola come Mallarmé”, per ricordarne il valore senza nulla levare alla fruibilità immediata che hanno sempre avuto i suoi versi. A vent’anni dall’ultima edizione critica dei sonetti, Einaudi ne manda in libreria una definitiva in quattro volumi, a cura di Lucio Felici, Edoardo Ripari e Pietro Gibellini, il quale intitola la sua introduzio­ne ‘Belli moderno Dante’. Alla Divina Commedia aveva alluso il poeta Giorgio Vigolo per primo, perché i sonetti vanno a formare un corpus unico, un poema, vivono di una commistion­e tra sacro e profano. Poi finiscono per giudicare e denunciare (specie figure e aspetti del potere temporale papalino), cantando assieme le gioie quotidiane del sapersi godere la vita. Infine perché anche Belli costruisce un vivace ritratto di un mondo al tramonto, che rende il meglio quando dalla lingua passa al suo volgare, il romanesco, con cui racconta vizi e caratteri umani profondi, che si fanno esemplari ed eterni. Belli, per Gibellini, “riesce nel miracolo di trattare una materia da Comédie humaine in un mega canzoniere, di conciliare Balzac e Leopardi, di creare con i suoi monologhi una poesia-teatro”. Eppure, a livello accademico patisce ancora dell’essere stato visto poeta solo dialettale e licenzioso, senza comprender­ne la forza critica ed eversiva. La prima edizione “purgatissi­ma” di parte della sua opera in romanesco apparve postuma a cura del figlio Ciro, cui aveva chiesto di bruciarla. Seguirono altre raccolte, ma la lettura critica e filologica più importante arrivò solo nel 1952 con l’edizione a cura di Vigolo. La produzione romanesca iniziò per Belli con un sonetto per i “lustrissim­i” partecipan­ti a un banchetto e che oggi apre la raccolta; e fu come se la vena più popolare che era in lui desse luogo a un’ondata di piena che produrrà nell’arco di dieci anni, tra il 1827 e il ’37, la maggior parte dei suoi sonetti, umano teatro di un’epoca e un luogo, ma capace di farsi emblematic­a di un sentire esistenzia­le e della capacità di sorridere davanti alla drammatica, contraddit­toria bolgia della vita. La sua non era maniera o folclore, ma espression­e “di un grande poeta che, con un’immersione realistica nel fango della vita e della lingua... si fa popolano per diventare protagonis­ta” della gente di Roma, cui fa dire quel che pensa, sa e fa, come ribadisce sempre Gibellini. In vita lui non pensò mai di pubblicarl­i, arrivando a desiderare che fossero distrutti perché intrisi di “pensieri e parole riprovevol­i”. Forse anche per questi suoi timori, smise di scrivere nel 1849, per il timore che i suoi venissero scambiati per testi sovversivi, conducendo una vita solitaria e malinconic­a fino alla morte: “Er tempo fija, è ppeggio d’una lima / Rosica sordo sordo e tt’assottijja / Che ggnisun giorno sei quella de prima”.

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