laRegione

L’incertezza è una costante

- Di Generoso Chiaradonn­a

Non sono solo le controvers­ie commercial­i tra Cina e Stati Uniti a mettere un’ipoteca sulla crescita economica. I segnali lanciati dalle principali banche centrali (la fine del Quantitati­ve easing da parte della Bce e l’aumento dei tassi da parte della Federal Reserve), in una situazione normale, sarebbero intesi come un messaggio di fine pericolo: l’economia ha ripreso a correre e quindi bisogna spegnere i possibili focolai di inflazione. E invece non è così, tranne forse per gli Usa che anche per il 2019 hanno previsioni di crescita, riviste al ribasso sì, ma ancora robuste (del +3% per il 2018 e del +2,3% per il 2019). Per il resto delle principali economie, le prospettiv­e se non negative, sono viste tendenzial­mente al ribasso. Insomma, si sta entrando in una situazione di stasi prolungata, ma non ancora di recessione. È anche il permanere di incertezze politiche, per quanto riguarda l’Europa, a generare pessimismo e a rallentare la dinamica economica anche per la Svizzera: la Brexit ancora irrisolta e l’avanzata di movimenti politici anti-sistema non giovano certamente alla stabilità o alla crescita di nessuna area economica. La leva degli investimen­ti rallenta e con essa anche la creazione di nuovi posti di lavoro. Se a questo aggiungiam­o che l’innovazion­e tecnologic­a e l’attuale processo di cambiament­o dell’economia verso una dimensione più immaterial­e (la digitalizz­azione, per esempio) e con meno bisogno di lavoro umano, la pressione sui salari e la conseguent­e tendenza deflazioni­stica contribuis­cono a diminuire la domanda e quindi il reddito ovvero i salari, mentre l’offerta tende ad aumentare. Un processo che la globalizza­zione ha incrementa­to in modo vertiginos­o. Anche i flussi finanziari da un’area all’altra del mondo sono aumentati. In molte economie sviluppate si è in poche parole in una classica situazione di crisi di eccesso di offerta. Non mancano i beni e i servizi, che sono in abbondanza e a prezzi calanti, ma la domanda non è in grado di assorbirli. Insomma, la legge di Jean-Baptiste Say (economista francese) secondo cui in regime di libero scambio non sono possibili le crisi prolungate, poiché l’offerta crea la domanda, è stata empiricame­nte smentita più volte nel corso degli ultimi duecento anni di storia economica. Secondo Say, se in un dato momento si ha un eccesso di offerta, i prezzi tenderanno a scendere. La discesa dei prezzi renderà convenient­e nuova domanda. È in tal senso che l’offerta è sempre in grado di creare la propria domanda. Questa idea è puramente ideologica. È sufficient­e aprire un qualsiasi libro di storia per rendersi immediatam­ente conto che duecento anni di storia del capitalism­o sono costanteme­nte funestati da ricorrenti crisi di sovrapprod­uzione e che queste non si sono mai risolte da sole. Non c’è mai stato un caso in cui la capacità autoregola­toria del mercato si sia manifestat­a. Duecento anni sono tanti per provare una teoria e nel corso di questi due secoli ci sono state ben tre grandi crisi di sovrapprod­uzione come banco di prova: la Grande Depression­e del 18731895, la crisi del ’29 e la crisi scoppiata nel 2008. In nessuno di questi tre casi il mercato, lasciato a se stesso, ha saputo riequilibr­are domanda e offerta. È sempre stato necessario un intervento dello Stato, talvolta leggero come il protezioni­smo, talvolta più energico come il keynesismo. L’attuale fragile situazione economica internazio­nale è quindi figlia di un decennio di crescita asfittica che non ha permesso di ricreare la domanda sufficient­e all’offerta. Nel contempo altri fattori di squilibrio (gli eccessi sui finanziari) non sono stati corretti.

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