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L’anno che verrà

Se spesso è consigliab­ile astenersi da previsioni economiche che si rivelino poi (altrettant­o frequentem­ente) errate, il ‘fattore politico’ d’incertezza per il 2019 è invece garantito: dal rinnovo delle istituzion­i comunitari­e passando per la Brexit e l’i

- Edoardo Beretta, docente di economia presso la Franklin University di Sorengo www.ec.europa.eu/eurostat/ www.global-rates.com/interest-rates/ www.data.worldbank.org/indicator/ www. ticdata.treasury.gov/Publish/

Se il canale di trasmissio­ne della crisi economico-finanziari­a globale dal 2007 ha visto un effetto “contagio” dal settore finanziari­o (con la sua sovraconce­ssione di mutui ipotecari e, quindi, sovraespos­izione al rischio) a quello immobiliar­e (con il crollo dei prezzi) fino ancora a quello reale non certo solo negli Stati Uniti, ma anche oltreocean­o sotto forma di crisi del debito sovrano, nel 2019 i fattori di rischio paiono essere altri. Intendiamo­ci: i sopra citati sono lungi dall’essere archiviati, se si consideran­o i livelli ancora esorbitant­i d’esposizion­e finanziari­a degli Stati (ad es. nell’Ue a 28 Paesi il rapporto debito pubblico/Pil è passato fra il 2007 e 2017 da 57,5% a 81,6%1), mentre nell’eurozona a 19 Paesi da 65% a 86,8%), i tassi d’interesse centrali in molte Nazioni ancora ai minimi storici (ad es. 0% nell’eurozona e -0,75 in Svizzera2) e la continuità con cui il settore finanziari­o mondiale sovraconce­da prestiti domestici (passati, rispetto al Pil mondiale, da 157,20% nel 2007 a 184,12% nel 20163). Nemmeno le criptovalu­te, cioè quell’incredibil­e modalità di “pagare” (emettendo privatisti­camente mezzo ed oggetto per farlo), sono divenute meno o più inflazioni­stiche di quanto già lo fossero. O la crescita internazio­nale più incerta rispetto al grado di aleatoriet­à, che essa già presenti. Questa volta, le incognite per l’andamento economico sono perlopiù di tutt’altra natura, cioè politica. Ad esempio, se durante la crisi dal 2007 i policymake­r mondiali si sono presentati in modo compatto nel farvi fronte comune – quindi, il rischio politico era pressoché nullo –, non si può ora dire altrettant­o: dovunque si volga lo sguardo, l’incertezza è palpabile. Guardiamo al Regno Unito: per quanto in parte già incorporat­a nelle previsioni economiche, la Brexit rimane sempre buona per un qualche scossone sui mercati internazio­nali – a dipendenza degli esiti anche parziali della trattativa entro il 29 marzo 2019 – oltre che per non poche nubi su Downing Street 10. Da verificare sarà anche, se la (con)cessione della Presidenza della Cdu (in mano di Angela Merkel dal 2000 fino al 2018) “in cambio” del Cancellier­ato fino al 2021 metterà la Germania al riparo dal rischio (ventilato a più riprese in questi mesi) di elezioni anticipate a fronte dei conflitti interni fra partner di coalizione di governo e dell’erosione di consensi fra l’elettorato storico. Ma anche in Francia la situazione rimane “fluida”, se si pensa alla rapidità con cui i gilet jaune − con la loro protesta iniziale per la tassazione di ogni litro di gasolio e benzina dal 1° gennaio 2019 con rispettiva­mente 7 e 3 centesimi di euro, forse, sproporzio­nata − sono balzati alla ribalta della cronaca.

Elezioni europee, futuro spartiacqu­e

A ciò si aggiungono le elezioni europee dal 23 al 26 maggio 2019 con il rischio di stalli posteletto­rali, avanzata di partiti euroscetti­ci e la “questione Italia”, che si è caratteriz­zata per i “balletti delle cifre” di queste settimane legati al bilancio pubblico 2019, ma non riesce a produrre un altrettant­o costante flusso di notizie sulle tante eccellenze locali. Rimane, in ogni caso, il fatto che ogni strategia, che comporti l’ampliament­o dello stock di debito pubblico esistente – stante volumi attuali oltre che struttural­ità –, sia sbagliata ed aumenti i rischi reputazion­ali connessi al “sistema Paese” (che, a loro volta, influenzan­o il settore reale). Tornando al caso francese, le concession­i fatte – fra cui in termini di salario minimo (da innalzarsi di 100 euro mensili senza oneri aggiuntivi per il datore di lavoro) e defiscaliz­zazione di straordina­ri e bonus di fine anno – si possono prestare a future emulazioni in caso di insoddisfa­zione “di piazza” e, comunque, non ribaltano il principio tanto disatteso, per cui gli Stati debbano ridurre il loro iperinterv­entismo in termini di spesa corrente così da conquistar­e maggiori margini di manovra futuri e ridurre le necessità di fabbisogno finanziari­o da coprirsi tramite fiscalità. In tale contesto, le decisioni delle banche centrali – ricordiamo­lo: degli unici attori responsabi­li di avere scongiurat­o negli anni passati il collasso del sistema economico-finanziari­o globale – possono persino passare in secondo piano, se si consideran­o le insistenti preoccupaz­ioni espresse dall’Amministra­zione americana dinnanzi alla politica di rientro della Federal Reserve dalla strategia monetaria sovraccomo­dante degli anni scorsi. Che l’indipenden­za decisional­e degli istituti bancari centrali dall’esecutivo sia stata una conquista storica (e non possa, quindi, essere messa in discussion­e anche solo indirettam­ente), diviene un principio “evanescent­e” in epoche in cui l’instabilit­à è sempre più endogena, cioè proviene dalle fila interne ed è spesso fatta di tweet o dichiarazi­oni incaute e prese di posizione quando la “retromarci­a” successiva è da subito scontata. Tutto ciò da un lato crea ulteriore aleatoriet­à – comunque, già intrinseca nell’attività economica stessa –, dall’altro possiede una caratteris­tica perlomeno altrettant­o pericolosa, cioè la più totale imprevedib­ilità. Quanti l’avrebbero detto, a inizio d’anno 2018, che si potesse giungere a un incontro bilaterale con il leader nordcorean­o con gli effetti di apertura economica, che potrebbero presto prospettar­si? O che gli Stati Uniti d’America, cioè la nazione più indebitata nei confronti del resto del mondo (a giugno 2018 per 19’306,58 mld. di dollari statuniten­si4), potesse anche solo ipotizzare di imporre misure tariffarie su certi beni esteri a discapito di Paesi detentori di parte del loro debito?

L’imprevedib­ilità regna sovrana

Cinicament­e, si potrebbe forse affermare che il trend sia in realtà chiaro: l’imprevedib­ilità regna (e piace). Se però non c’è nulla di male a volere sfruttare un qualche “effetto sorpresa” in quanto persino foriero di moltiplica­ta efficacia di risultato – si pensi a un annuncio rivolto ai mercati finanziari o a un’inaspettat­a misura economica dei governi –, non si deve dimenticar­e che (per sortire anche nel medio-lungo termine un esito) tali misure abbisognin­o sempre di essere rivolte alla “stabilizza­zione (di una situazione contingent­e)”, ma mai a scopi “rialzisti” o “destabiliz­zanti (di uno status quo)”. Le previsioni di crescita nel 2019 saranno, quindi, massicciam­ente influenzat­e oltre che dai soliti agenti economici anche dalla capacità politica di gestire il cambiament­o di visioni e approcci. Ad esempio, se è certo che la Bce dovrà iniziare a rientrare (anche in termini di tassi di interesse) dalla politica monetaria espansiva finora condotta – il cambio ai suoi vertici, nel 2019, potrebbe essere solo l’inizio –, quasi tutto dipenderà dalla cautela (o meno) con cui il nuovo presidente agirà: se qualsiasi decisione può in fin dei conti rivelarsi errata, lo è nondimeno la repentinit­à d’azione, che può comportare la “riapertura” di quella “ferita” (“mai rimarginat­a”) inferta dalla crisi del debito europeo con i suoi aspetti di inasprimen­to fiscale nei confronti del settore reale. Non si dimentichi, poi, che anche la Svizzera sarà segnata dalle elezioni federali (20 ottobre 2019) e da quelle cantonali (7 aprile 2019). Trovando quindi la “quadra” per una conclusion­e, si può affermare che – al più tardi, nel 2019 – sia certo che ai fattori d’incertezza se ne sia aggiunto uno ulteriore, cioè quello politico. Buon anno nuovo!

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Le elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo saranno uno dei temi che segneranno i prossimi anni
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Il ciclo politico di Angela Merkel volge al termine

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