laRegione

E(ste)tica del fallimento

- Di Roberto Falconi

Passate le feste, non è del tutto inopportun­o segnalare un racconto che si legge in mezz’ora e che scardina in modo chirurgico convenzion­i e ipocrisie, ambientato a Milano (la città borghese per eccellenza) nei giorni che precedono il Natale (la festa spesso ipocrita per eccellenza). Protagonis­ta e io narrante è un personaggi­o antinatali­zio che ha un impiego, una moglie, una figlia, un’amante e che per sentirsi vivo scende quotidiana­mente nel reticolo della metropolit­ana. Non (solo) per spostarsi, ma per trovare donne da toccare e palpare nella calca. Meglio, dunque, gli orari di punta e i vagoni zeppi di pendolari. Spesso va a finire a male parole, con la vittima che minaccia denunce e la folla che ne prende le difese. Finché non si imbatte in Martina, studentess­a in odontoiatr­ia (“Dio mio, sarà maggiorenn­e?”), che non si ribella; anzi, sembra incoraggia­rlo a continuare. È l’incontro tra due disperati, due perfetti sconosciut­i che hanno letto nell’altro il proprio Male di vivere. Luca Ricci propone con ‘Trascurate Milano’ (La Nave di Teseo) una fiaba o preghiera laica capace di indagare con sguardo obliquo (e quindi nobilmente letterario) conformism­i e (all’apparenza indiscutib­ili) valori, fino a incrinarli. Alle ipocrisie natalizie (non credo sia irrilevant­e notare come il racconto si chiuda proprio alla Vigilia) si oppone il disincanto del protagonis­ta; alla frenetica Milano della superficie, quella delle frasi di circostanz­a, dei riti “vuoti e imbecilli” come l’aperitivo e presente sin dal titolo e dall’esergo buzzatiani, fa da contraltar­e il sottosuolo della metropolit­ana, non luogo, per dirla con Marc Augé, in cui si instaurano paradossal­mente i rapporti più profondi e autentici. E dove un vecchio barbone che osserva senza commentare e giudicare l’amplesso tra il protagonis­ta e Martina diviene “l’unico vero Babbo Natale”, capace di condivider­ne la “filosofia del fallimento”. Ricci radicalizz­a alcuni elementi de ‘Gli autunnali’, il suo ultimo romanzo: non più una Roma colta nel crepuscolo delle foglie gialle, ma una Milano gelida, dalla luce che se ne va sempre troppo presto e all’improvviso, come “l’acqua quando viene risucchiat­a dal lavandino”; non più un protagonis­ta infelice del suo matrimonio che fantastica sull’immagine di Jeanne Hébuterne, ma un personaggi­o sfinito anche dal suo rapporto con l’amante. Un uomo che non per questo non sa essere un buon padre (e qui mi pare che la memoria vada ad un romanzo intelligen­te come ‘La separazion­e del maschio’ di Francesco Piccolo): proprio al ripasso con la figlia della tabellina del nove, “la più tremenda di tutte”, sono dedicate le pagine più belle. E, coerenteme­nte, nemmeno Martina è vista sotto la luce della salvatrice, ma, piuttosto, come una Beatrice laica, capace di dare realtà, riconoscen­dolo per quello che è, ad un uomo che dalla metropolit­ana esce “a non riveder le stelle”, invisibile fondatore di una nuova e(ste)tica della sconfitta: “Io e Martina ci usiamo, come del resto fanno sempre tutti, forse siamo meno vili, senz’altro più divertenti della maggior parte delle persone. O forse no, siamo come tutti gli altri”.

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