E(ste)tica del fallimento
Passate le feste, non è del tutto inopportuno segnalare un racconto che si legge in mezz’ora e che scardina in modo chirurgico convenzioni e ipocrisie, ambientato a Milano (la città borghese per eccellenza) nei giorni che precedono il Natale (la festa spesso ipocrita per eccellenza). Protagonista e io narrante è un personaggio antinatalizio che ha un impiego, una moglie, una figlia, un’amante e che per sentirsi vivo scende quotidianamente nel reticolo della metropolitana. Non (solo) per spostarsi, ma per trovare donne da toccare e palpare nella calca. Meglio, dunque, gli orari di punta e i vagoni zeppi di pendolari. Spesso va a finire a male parole, con la vittima che minaccia denunce e la folla che ne prende le difese. Finché non si imbatte in Martina, studentessa in odontoiatria (“Dio mio, sarà maggiorenne?”), che non si ribella; anzi, sembra incoraggiarlo a continuare. È l’incontro tra due disperati, due perfetti sconosciuti che hanno letto nell’altro il proprio Male di vivere. Luca Ricci propone con ‘Trascurate Milano’ (La Nave di Teseo) una fiaba o preghiera laica capace di indagare con sguardo obliquo (e quindi nobilmente letterario) conformismi e (all’apparenza indiscutibili) valori, fino a incrinarli. Alle ipocrisie natalizie (non credo sia irrilevante notare come il racconto si chiuda proprio alla Vigilia) si oppone il disincanto del protagonista; alla frenetica Milano della superficie, quella delle frasi di circostanza, dei riti “vuoti e imbecilli” come l’aperitivo e presente sin dal titolo e dall’esergo buzzatiani, fa da contraltare il sottosuolo della metropolitana, non luogo, per dirla con Marc Augé, in cui si instaurano paradossalmente i rapporti più profondi e autentici. E dove un vecchio barbone che osserva senza commentare e giudicare l’amplesso tra il protagonista e Martina diviene “l’unico vero Babbo Natale”, capace di condividerne la “filosofia del fallimento”. Ricci radicalizza alcuni elementi de ‘Gli autunnali’, il suo ultimo romanzo: non più una Roma colta nel crepuscolo delle foglie gialle, ma una Milano gelida, dalla luce che se ne va sempre troppo presto e all’improvviso, come “l’acqua quando viene risucchiata dal lavandino”; non più un protagonista infelice del suo matrimonio che fantastica sull’immagine di Jeanne Hébuterne, ma un personaggio sfinito anche dal suo rapporto con l’amante. Un uomo che non per questo non sa essere un buon padre (e qui mi pare che la memoria vada ad un romanzo intelligente come ‘La separazione del maschio’ di Francesco Piccolo): proprio al ripasso con la figlia della tabellina del nove, “la più tremenda di tutte”, sono dedicate le pagine più belle. E, coerentemente, nemmeno Martina è vista sotto la luce della salvatrice, ma, piuttosto, come una Beatrice laica, capace di dare realtà, riconoscendolo per quello che è, ad un uomo che dalla metropolitana esce “a non riveder le stelle”, invisibile fondatore di una nuova e(ste)tica della sconfitta: “Io e Martina ci usiamo, come del resto fanno sempre tutti, forse siamo meno vili, senz’altro più divertenti della maggior parte delle persone. O forse no, siamo come tutti gli altri”.