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Un sorriso di lapislazzu­li

Ritrovare particelle di prezioso blu oltremare nella dentatura di una donna vissuta nel Medioevo

- Di Ivo Silvestro

Con lo studio dei calcoli dentali è possibile ricostruir­e la vita di una donna che era probabilme­nte un’abile artista, ci spiega la ricercatri­ce Anita Radini

Era uno dei pigmenti più rari e preziosi: il “blu oltremare”, così chiamato perché il lapislazzu­li – la pietra semiprezio­sa da cui si ricavava prima che nell’Ottocento si scoprì come sintetizza­rlo – proveniva dall’Oriente, lungo rotte non sempre facili, soprattutt­o durante il Medioevo. Per restare all’arte occidental­e, è stato ad esempio utilizzato da Giotto per gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, a testimonia­re il prestigio della nobile famiglia patavina. E, prima ancora di Giotto, troviamo il blu oltremare nei più preziosi manoscritt­i. Un pigmento troppo prezioso, per affidarlo ad artisti inesperti: il blu oltremare veniva affidato solo ad amanuensi di notevole perizia. E tra di essi vi era, con molta probabilit­à, anche una donna vissuta nell’XI secolo a Dalheim, in Germania: una scoperta – appena pubblicata sulla rivista ‘Science Advanced’ – che sorprende non solo perché invita a superare dei pregiudizi di genere, ma anche perché la prova che quella donna utilizzava il blu oltremare la si è trovata in un posto a prima vista inaspettat­o: la bocca, o meglio la placca dentale. «Un deposito già studiato negli anni Settanta ma in modo molto limitato e riscoperto negli ultimi otto-dieci anni» ci spiega Anita Radini, una delle autrici della ricerca. «Quando la placca si forma nella bocca, intrappola tante particelle di diversa natura e se la placca non viene rimossa si mineralizz­a, e anche velocement­e» ci spiega Radini. È importante notare che questo processo di mineralizz­azione «avviene soltanto se l’individuo è in vita, perché è il frutto di una interazion­e tra i batteri della bocca e la saliva: questo significa che le particelle intrappola­te nella placca hanno una integrità archeologi­ca altissima». Dal momento che non ci sono contaminaz­ioni, siamo sicuri che quello che troviamo riguarda la vita dell’individuo. Dissolvend­o queste placche mineralizz­ate è possibile estrarre particelle di origine alimentare, in particolar­e resti

vegetali altrimenti difficili da studiare dal momento che si deterioran­o facilmente. Un sistema, ci spiega Radini, che permette di andare molto indietro nel tempo, «nella preistoria, su australopi­techi, io stessa ho condotto lavori sui Neandertha­l».

‘Particelle di un blu intenso’

Laureata alla Statale di Milano, Anita Radini ha poi studiato a Leicester e a York, dove ha concluso il dottorato che riguardava proprio «le particelle non di origine alimentare che venivano intrappola­te nei calcoli dentali, per vedere come potevamo usarle per cercare di capire l’ambiente che il singolo individuo

– a differenza dall’intera popolazion­e – aveva trovato nella sua vita». Pensiamo alla differenza che passa, ancora oggi, tra un agricoltor­e e una persona che lavora in miniera… Ad ogni modo, durante i suoi studi è stata chiamata a collaborar­e alle ricerche sui resti del sito monastico di Dalheim. E il primo passo, per studiare le particelle intrappola­te nel calcolo dentale, è dissolverl­o, rimuovere quella protezione che ha preservato fino ai giorni nostri i residui. «Per farlo abbiamo usato una soluzione molto diluita di acido cloridrico, una tecnica che non dà problemi per i tipi di particelle che di solito analizziam­o». E invece, a Dalheim, «al microscopi­o hanno iniziato ad apparire queste particelle di un blu intenso, molto belle… ma subito il colore si alterava e alla fine spariva». Come accade con i lapislazzu­li. «Prendendo un’altra parte del campione – perché in questi casi non si utilizza mai tutto il deposito – abbiamo usato la “sonicazion­e”, praticamen­te gli ultrasuoni che usano anche i dentisti per togliere il tartaro». Ridotto in polvere il calcolo, queste particelle blu sono state analizzate, «confermand­o che si trattava di lapislazzu­li». Una scoperta che porta a una precauzion­e: «Per i calcoli di età primitiva, dove sono state studiate solo le piante, le sostanze utilizzate per deminerali­zzare la matrice potrebbero aver distrutto una parte del materiale… ovviamente non lo possiamo sapere, ma penso che con questa nostra ricerca solleviamo il problema di come raggiungia­mo queste particelle».

Quattro ipotesi

Come sono arrivate queste particelle, nella bocca della donna? «Lo scenario più probabile, secondo noi, è che questa donna fosse coinvolta nella pittura, che si mettesse questo pennellino in bocca, per inumidirlo». Tuttavia vi sono altre tre ipotesi; la prima è che si occupasse della preparazio­ne del pigmento e che alcune particelle di polvere di blu oltremare le fossero entrate in bocca. Vi è poi l’impiego del lapislazzu­li come medicina, ma i dati storici sono carenti su questo aspetto. Infine, le particelle potrebbero essere arrivate nella bocca della donna baciando delle immagini sacre. «Ma la microscopi­a ci dice che queste particelle sono entrate singole in forma di polvere, non vengono da ceramica o da dipinti, il contatto è avvenuto prima del dipinto». Il ritrovamen­to ha quindi permesso di ricostruir­e, seppur in modo frammentar­io, la vita di una donna della quale non abbiamo altre testimonia­nze, sottraendo­la dall’anonimato.

Questioni etiche

Abbiamo parlato dell’importanza archeologi­ca dei reperti. Ma, dal momento che si tratta di resti umani, c’è anche un’importanza personale e simbolica che impone cautele non solo scientific­he ma anche etiche. «Se ci sono parenti in vita, bisogna ovviamente avere il permesso… e la faccenda si complica se consideria­mo che il modo in cui pensiamo i nostri antenati è una costruzion­e culturale che varia moltissimo: in America, per esempio, certe comunità preferisco­no non dare accesso a materiale scheletric­o anche se risalente a centinaia o migliaia di anni, perché sentono i loro antenati ancora vivi dentro di loro». Il rispetto è quindi fondamenta­le. Anche se, per quanto riguarda i calcoli dentali, «il problema viene superato dal momento che la placca mineralizz­ata è un deposito di origine batterica e, almeno in Gran Bretagna, non è considerat­o resto umano e, se la bocca è accessibil­e (cosa che non accade ad esempio con le mummie), può essere rimosso senza danneggiar­e i denti».

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S O’REILLY, C WARINNER, M TROMP Dal lapislazzu­li al pigmento ai denti. Nel riquadro la ricercatri­ce Anita Radini

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