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Visioni Celesti(ni)

- di Sebastiano Storelli

Il 43enne tecnico bianconero, a Cornaredo da metà girone d’andata, si racconta: il Lugano che vorrebbe, le gioie e le delusioni di 35 partite in Nazionale, gli allenatori che hanno segnato la sua carriera, a cominciare da Bernd Schuster... E quella volta in cui il biondo e baffuto tedesco convinse il Getafe di poter battere il Barcellona in semifinale di Copa del Rey.

Il Lugano è partito ieri alla volta di San Pedro del Pinatar, nella regione di Murcia (Spagna), dove svolgerà lo stage pre-campionato. L’occasione per il tecnico Fabio Celestini di mettere sulle “i” tutti quei puntini che nei due mesi e mezzo di gestione autunnale non c’era stato il tempo di piazzare... «Nonostante si sia dovuto lavorare di rincorsa – afferma il tecnico vodese – credo che la squadra abbia compiuto progressi in vari reparti. A tratti si è già visto il Lugano che vorrei. Ci è mancata la continuità, anche a seguito di infortuni e acciacchi vari. Dovremo lavorare sotto questo aspetto».

Cosa manca ancora?

Dobbiamo essere squadra in ogni momento della partita e avere la consapevol­ezza che così facendo potremo toglierci belle soddisfazi­oni e raggiunger­e i nostri obiettivi. Sono ancora troppi i momenti nei quali non tutti gli uomini in campo possiedono il medesimo principio di gioco: alcuni vorrebbero difendersi, mentre altri preferireb­bero attaccare, manca una convinzion­e univoca su cosa sia giusto fare. Iniziando il lavoro a stagione in corso non è stato facile amalgamare l’insieme dei concetti per far sì che tutti ragionasse­ro con una testa sola: queste settimane di preparazio­ne saranno importanti per portare tutti gli elementi della squadra a giocare lo stesso calcio in ogni momento della partita, ciò che non è sempre stato il caso nei primi due mesi e mezzo. È sotto questo aspetto che possiamo compiere un salto di qualità. Per il resto, la squadra sa difendere bene e davanti ha contabiliz­zato quasi due gol a partita.

Fabio Celestini è considerat­o un tecnico offensivis­ta...

Credo che non si possa attaccare bene se non ci si difende bene. La fase difensiva viene curata nei minimi particolar­i, perché la squadra deve assolutame­nte sapere cosa fare quando non ha il possesso della palla. Altra cosa è il fatto che io mi incavoli quando vedo i miei giocatori rincorrere il pallone, perché penso sia possibile difendere anche palla al piede, fare possesso non forzatamen­te per imbastire la fase offensiva, ma per evitare che ad attaccare sia l’avversario. Ovviamente, sono più portato a spingere la mia squadra ad essere padrona del campo con la palla al piede, ma ciò non significa trascurare la fase difensiva. Per le mie compagini desidero, sia a livello difensivo sia a livello offensivo, un’identità molto chiara, con concetti ben precisi. Nella speranza che corrano il più possibile con il pallone e non nel tentativo di scardinarl­o dai piedi degli avversari.

Il campionato di Super League viene sovente criticato per scarsa qualità. E forse non giova che da anni sia in mano a una squadra sola, prima il Basilea, adesso lo Young Boys...

La Super League non fa parte dei cinque grandi tornei europei, è chiaro. Ma a chi vuole venire in Svizzera e recitare un ruolo da protagonis­ta non basta essere bravo. È vero, il livello è lontano da Italia, Spagna o Inghilterr­a, però il giocatore bravino, anche se arriva da una nazione top, rischia di far fatica: qui le squadre sono ben organizzat­e, fisicament­e sono forti, a volte si gioca su campi non eccezional­i, per cui non è un campionato facile. Chi vi giunge preparato e con il giusto approccio mentale può far bene, chi viene con grandissim­a qualità, ma con atteggiame­nto sbagliato finirà per arrancare. Credo che bisognereb­be avere più rispetto per il campionato svizzero. Che poi a dominare sia una squadra sola non è positivo per la Super League come non lo è per la Serie A o per la Liga. Da noi occorrereb­be migliorare il livello alle spalle dello Young Boys, ma non è facile perché le differenze sono importanti, in primis a livello finanziari­o. Senza scordare che il ristretto numero di partecipan­ti rende il campionato un po’ strano: se facciamo astrazione dall’Yb, le altre stanno giocando per l’Europa o per la retrocessi­one: bastano un paio di partite riuscite o sbagliate per passare da un obiettivo all’altro. Tutto ciò aumenta la pressione, positiva per l’Europa o negativa per la retrocessi­one. Il Lugano è lì in mezzo al guado, alla stessa distanza dall’una e dall’altra. In Svizzera il centroclas­sifica non esiste: se faremo bene a sufficienz­a da allontanar­ci dalla penultima piazza ci ritroverem­o inevitabil­mente a competere per un posto in Europa, perché un ventre molle della classifica da noi non c’è: è una particolar­ità tutta svizzera.

Fabio Celestini con la Nazionale rossocroci­ata ha disputato 35 partite sull’arco di 10 anni (1998-2007). Un rapporto che non è mai pienamente sbocciato...

Alla Nazionale tenevo moltissimo, per me l’essere arrivato a rappresent­are la Svizzera equivaleva a una sorta di miracolo. Non avevo la visione del futuro che contraddis­tingue i giovani calciatori del giorno d’oggi. Io volevo giocare a Renens, guardavo “90° minuto” in television­e e mi sembrava fosse un altro pianeta, per cui non perdevo energie in sogni considerat­i irrealizza­bili. Poi, di colpo sono arrivati il Losanna e la U21... Non ho avuto molto tempo per riflettere e quando nel 1998, dopo tre anni di A con il Losanna, ho esordito in Nazionale, ero al settimo cielo. Le difficoltà sono iniziate quando sono diventato titolare al Troyes: giocavo in Coppa Uefa, ma Vogel con il Psv era in Champions League e in Nazionale sono sempre rimasto la sua alternativ­a. La vera delusione l’ho vissuta ai tempi del Marsiglia: ero capitano, disputavo la Champions, mentre Vogel praticamen­te non giocava e ciò nonostante, nessun selezionat­ore mi ha davvero dato fiducia. Io, lo ammetto, ci ho messo del mio, sbagliando le partite che non avrei dovuto sbagliare.

Ma anche indovinand­o quelle che andavano indovinate, come il 16 ottobre 2002 al Lansdowne Road di Dublino, con quel gol all’88’...

È vero, quel gol di fatto ci permise di qualificar­ci per l’Euro 2004, ma poi in Portogallo toppai la sfida con l’Inghilterr­a che avrebbe potuto insinuare il classico dubbio nella testa di Köbi Kuhn. Avevo cominciato bene, ma poi al 23’ c’era stato quel gol di Rooney. Tutto era iniziato da una punizione laterale a nostro favore, con i centrali saliti in area di rigore. Io mi ero piazzato lì davanti più per cercare l’eventuale recupero di una seconda palla, ma Yakin mi aveva servito un pallone con una giocata mai preparata in allenament­o: il mio controllo di sinistro era stato un po’ lungo, gli inglesi avevano recuperato palla e da lì era nata l’azione del gol. In seguito la mia prestazion­e non era stata sufficient­e e al 60’ Köbi mi aveva tolto. Con Vogel espulso (con la Croazia nella prima partita, ndr), quella contro l’Inghilterr­a era la mia grande opportunit­à per cambiare le gerarchie. Nei club tutte le sfide fondamenta­li le ho azzeccate, in Nazionale no. Alla fine rimane una chiara discrepanz­a tra la carriera nelle società, dove ho raggiunto traguardi molto più importanti di quanto mi sarei aspettato, e quella in Nazionale, dove sono rimasto al di sotto delle mie possibilit­à.

Adesso, della Nazionale Celestini è uno dei primi tifosi...

Assolutame­nte sì. Mi piace come gioca, mi piace lo spirito che la permea. È una Nazionale nella quale mi sarebbe tanto piaciuto poter giocare. È un gruppo che sa passare dalla grande delusio- ne della Svezia al tripudio del Belgio in nemmeno sei mesi. A mio modo di vedere non ci rendiamo conto dei traguardi raggiunti. Stiamo parlando di una nazione di 7-8 milioni di abitanti che occupa stabilment­e i primi posti del ranking Fifa, una nazione che per giunta non possiede nemmeno una vera cultura calcistica. Eppure, ogni due anni si qualifica per la fase finale di un Mondiale o di un Europeo: dovrebbe essere giorno di festa nazionale e invece abbiamo la tendenza a vedere il bicchiere mezzo vuoto per il mancato accesso ai quarti di finale. Se riteniamo che l’obbligo sia di arrivare ogni volta ai quarti ci stiamo sbagliando, siamo completame­nte fuori dal mondo e non guardiamo la realtà. Molte nazioni da 50 o 60 milioni di abitanti vorrebbero tanto fare a cambio con noi: l’Italia in Russia non ci è andata, l’Olanda da un po’ di tempo Mondiali ed Europei li guarda alla television­e, la Germania è andata a casa nella fase a gruppi... Se poi vogliamo criticare Petkovic, lo possiamo anche fare, basta accettare di vivere ai margini della realtà...

Dal 2000 al 2010 la carriera calcistica di Fabio Celestini si è svolta all’estero, tra Francia e Spagna. Il vodese, però era partito con nelle gambe cinque stagioni da titolare nel Losanna. Al giorno d’oggi i giovani se ne vanno ancora minorenni e non sempre con risultati apprezzabi­li...

In generale si è più preparati rispetto alla nostra epoca, la formazione è più importante e migliore. Noi il calcio abbiamo imparato a giocarlo per strada, poi nella società del paese, spesso di Prima o Seconda lega. In prima squadra arrivavi a 16-17 anni e dovevi avere la fortuna di farti notare da qualche scout di Lega Nazionale, nella speranza, dopo un anno di stage, di trovare minuti di gioco. Adesso il tragitto parte dai vari Team regionali e dopo poche apparizion­i in Challenge già si spalancano le porte per l’estero. Io avevo nelle gambe 150 partite con il Losanna, tre finali di Coppa Svizzera, le prime convocazio­ni in Nazionale, eppure quando sono andato in Francia ho avuto bisogno di tempo per adattarmi. Al giorno d’oggi deve essere ancora più difficile, nonostante la migliore preparazio­ne. Va tutto troppo veloce e molti ragazzi non sono sufficient­emente maturi sia come persone sia come profession­isti.

Lontano dalla Svizzera, Celestini ha affrontato alcuni tra i calciatori più famosi del pianeta. Ma uno solo gli ha tolto il sonno...

Il Ronaldinho del Psg. Era giovane, veloce, forte fisicament­e, per non parlare della sua tecnica. Letteralme­nte imprendibi­le. Quando ero al Marsiglia ci ha fatto impazzire, non lo si poteva fermare. Il campo peggiore era invece il Camp Nou: se incassavi un gol nei primi 15’, ti aspettavan­o 75’ d’inferno a rincorrere il loro giro palla senza nemmeno vederla e con la prospettiv­a di subire un’imbarcata. Una lenta agonia...

In Francia e Spagna ha avuto modo di conoscere anche molti allenatori che hanno lasciato il segno...

Mi hanno influenzat­o i tecnici che ho avuto da giocatore, in particolar­e Bernd Schuster e Michael Laudrup. Ma pure Alain Perrin, un sergente di ferro che ai tempi del Troyes e del Marsiglia era dieci anni avanti rispetto ai colleghi: già nel 2000 proponeva quel concetto di calcio moderno che tanto va di moda adesso. Ho sempre avuto la fortuna di avere allenatori improntati al gioco con la palla e a un atteggiame­nto propositiv­o. Schuster, ad esempio, nella semifinale di Copa del Rey 2007 era riuscito a convincerc­i che nonostante la sconfitta per 5-2 all’andata ad opera del Barcellona di Ronaldinho, esisteva ancora lo spazio per una rimonta e che se non ce l’avessimo fatta saremmo comunque caduti in piedi, dopo averci provato fino all’ultimo. Vincemmo 4-0! È questo lo spirito che vorrei trasmetter­e al mio Lugano: a Berna possiamo pure perdere, ma solo dopo una prestazion­e propositiv­a. Magari con qualche accorgimen­to tattico per limitare i loro punti di forza, certo, ma sempre con uno spirito positivo e mai sottomesso.

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TI-PRESS/F. AGOSTA ‘Amo il calcio propositiv­o, ma solo se sorretto da una curata fase difensiva’

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