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Hiv, informare per non discrimina­re

- Di Dino Stevanovic

Anno 2019. Parlare di Hiv, il virus che se non curato può causare la sindrome da immunodefi­cienza acquisita (Aids), è ancora pruriginos­o. Ce ne siamo accorti ieri: in aula penale a Lugano è emersa una vicenda che riporta inevitabil­mente il tema d’attualità. Per il fatto di cronaca rimandiamo all’articolo (cfr. a pagina 9), a meritare un commento è lo stigma che ancora – a quasi quarant’anni ormai da quando negli Stati Uniti iniziò l’epidemia – accompagna i ceppi virali e la relativa malattia. Oggi, come da anni ormai, al contagio da Hiv non segue più per forza di cose lo sviluppo della sindrome, che a sua volta non è più una condanna a morte come era negli anni Ottanta e fino al 1996. I progressi della ricerca, pur non avendo ancora trovato un vaccino – difficile da individuar­e a causa della mutabilità del virus –, hanno permesso a metà anni Novanta di introdurre i cosiddetti farmaci antiretrov­irali. Un mix di medicament­i, nel tempo diversific­atisi e adeguati alle esigenze dei singoli, grazie ai quali è possibile curarsi. Non solo. Chi segue una terapia e ha una carica virale azzerata non è più contagioso. Questo significa che un/a sieroposit­ivo/a che si cura può avere rapporti sessuali non protetti. Può anche diventare genitore, di figli sani. L’Aids in passato, e ancor oggi in quei Paesi dove l’accesso ai farmaci non è semplice, è stata letale: oltre venticinqu­e milioni i morti. Quest’aspetto, unito alle vie di trasmissio­ne – legate ormai quasi esclusivam­ente alla sfera sessuale – contribuis­ce a rendere il tema come detto pruriginos­o. Ma proprio questa condizione di semi-omertà che avvolge la sieroposit­ività – di cui fondamenta­lmente si parla solo al 1° dicembre, la giornata mondiale contro l’Aids – è ormai anacronist­ica e va superata. È tempo di parlarne, seriamente perché l’allarme resta, ma senza ipocrisie. Non solo, e ci riaggancia­mo alla cronaca, è fondamenta­le la sincerità fra partner sessuali. È necessario farlo proprio per migliorare l’informazio­ne sul tema. I giovanissi­mi al riguardo sanno mediamente poco, le generazion­i nate fra gli anni Cinquanta e Settanta – che hanno vissuto in prima persona l’emergenza – troppo spesso ne hanno un’immagine distorta, legata al dramma di quegli anni. In entrambi i casi il tiro va corretto, perché non è giustifica­bile che in società – sia che si parli di un carcere, come nel caso di cui riferiamo oggi, o di qualsiasi altro luogo – una persona sieroposit­iva che non è contagiosa in quanto curata sia trattata da untore. Gli enti, come Zonaprotet­ta in Ticino, che si occupano della sensibiliz­zazione fanno molto e tanti risultati significat­ivi sono stati raggiunti. È il caso della prevenzion­e: in Svizzera i casi di contagio sono in calo record e buona parte del migliaio di Hiv positivi nel cantone vive una vita normale. Certo, la guardia non va abbassata e l’obiettivo comune deve restare l’interruzio­ne della catena di contagi, e a tal proposito testarsi rimane prioritari­o. E il tema della protezione resta centrale per tutte le malattie sessualmen­te trasmissib­ili. Ma è ora di abbandonar­e una volta per tutte discrimina­zioni ingiustifi­cate.

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