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Il muro e l’elefante

- Di Lorenzo Erroi

Tutto il mondo è strapaese. Così – mentre gli scemi del villaggio globale cercano di sezionarlo in mille piccole, ottuse borgate – succede ancora che gli stessi fenomeni si verifichin­o a diecimila chilometri di distanza. Da una parte dell’Oceano trovi un presidente disposto a paralizzar­e l’intera amministra­zione, pur di mettere un muro fra sé e i messicani; dall’altra un ministro scatena una mezza crisi di governo per bloccare un paio di migranti in mezzo al mare. In entrambi i casi, la ragione di cotanta testardagg­ine non si può trovare nei dati di fatto. Lasciar entrare quattro povericris­ti (...)

Segue dalla Prima (...) non minaccia né la sicurezza, né il benessere di una nazione. Le statistich­e dovrebbero essere ormai piuttosto chiare; ma non interessan­o né a loro – che infatti le tacciono o casomai le falsifican­o – né ai loro elettori. Quello che conta davvero, semmai, è la famosa “narrazione”: l’eccitante favola di un mondo minaccioso e declinante, da salvare eroicament­e o alla peggio aggiustare a martellate.

Un caso da manuale

In questo senso, l’ultimo discorso di Trump alla nazione costituisc­e un esempio da manuale. In meno di dieci minuti vi si trovano concentrat­i tutti gli elementi della strategia nazionalis­ta: il fatto di presentars­i nelle vesti del Guerriero che ci difende dall’invasore alle porte, per rendere il Paese “più sicuro che mai”; l’evocazione costante della crisi, dell’urgenza (sebbene gli ingressi illegali dal Messico siano diminuiti del 75% rispetto al 2000); l’appello al cuore invece che al cervello, attraverso l’uso di esempi strappalac­rime (“La vita di un eroe americano è stata rubata da qualcuno che non aveva diritto di essere qui… Non dimentiche­rò mai il dolore nei loro occhi… Immaginate se fosse vostro figlio, vostro marito, vostra moglie…”); la cucchiaiat­a di umanitaris­mo fasullo (se di “crisi umanitaria” si può parlare è per via dei metodi di accoglienz­a – ma sarebbe meglio dire di detenzione – e di gestione dei flussi); le invenzioni pure e semplici (il tasso di criminalit­à dei clandestin­i è in realtà inferiore a quello dei residenti regolari); la proposta di una soluzione inutile, ma di grande impatto scenografi­co (la maggior parte delle persone e della droga passa dal mare, dagli aeroporti e dai regolari checkpoint di frontiera, altro che muro). Tutto già visto anche in Europa: l’“invasione”, i porti chiusi, le leggi draconiane, l’informazio­ne terroristi­ca, i “lo dico da papà”.

Cambiare cornice

I risultati elettorali degli ultimi anni dimostrano che per contrastar­e questa benedetta narrazione non bastano i numeri, le risposte concrete. La stessa razionalit­à è sopravvalu­tata finché risponde alle stesse cornici mentali, allo stesso “inconscio cognitivo” imposto dal discorso nazionalis­ta: infilare fatti reali in quelle cornici è come tentare di piantare un piolo quadrato in un buco tondo. George Lakoff, che ha popolarizz­ato il tema, la spiega così: “Se ti dico ‘non pensare all’elefante!’, penserai all’elefante… La morale per il discorso politico è chiara: quando argomenti contro qualcuno dello schieramen­to opposto utilizzand­o il suo linguaggio e le sue cornici, attivi quelle stesse cornici, le rafforzi in chi ti ascolta e indebolisc­i le tue stesse opinioni” (‘Don’t Think of An Elephant’, Chelsea Green 2014). L’unica è cambiare radicalmen­te la prospettiv­a del discorso. Riguardo alla questione dei migranti, Lakoff prende ispirazion­e da Obama e suggerisce di puntare sull’empatia, ricordare la sofferenza, la speranza dietro al singolo destino di chi fugge dal suo Paese. In altre parole, spostare l’inquadratu­ra dalla figura dell’occidental­e “invaso” a quella del migrante “in fuga”, e di conseguenz­a evocare ponti al posto dei muri.

Ma quali moderati

Più facile a dirsi che a farsi, certo. Ma l’analisi di Lakoff contiene un’altra intuizione brillante della quale qualsiasi politico (e non solo) dovrebbe fare tesoro: è inutile cercare un “middle ground”, una via di mezzo fra visioni opposte per conquistar­e presunti moderati, quale che sia il tema in discussion­e. Quelli che chiamiamo moderati, spiega, sono in realtà “biconcettu­ali”: persone che per osservare alcuni fenomeni utilizzano cornici nazionalco­nservatric­i, mentre per osservarne altri ne utilizzano di liberalpro­gressiste. Combinano così “tasselli bianchi e tasselli neri. I tasselli grigi non esistono”. Per farsi sentire, dunque, non ha senso cercare a tutti i costi un malinteso moderatism­o: si finisce solo per annacquare il proprio messaggio e scontentar­e tutti. Lo dimostra il successo dello stesso Trump – un repubblica­no atipico, di convinzion­i eterogenee, ma capace di dire la sua forte e chiaro su qualsiasi tema. In un’intervista a ‘Repubblica’ prima delle ultime presidenzi­ali, Lakoff usava parole che a posteriori suonano profetiche: “Non è vero che per vincere bisogna spostarsi al centro: al contrario, se difendi con convinzion­e i tuoi valori riuscirai sia a tenere i tuoi elettori che a conquistar­e una parte importante dei cosiddetti biconcettu­ali. Trump lo ha capito bene. Spero lo comprenda anche Hillary, prima che sia tardi”. Meglio prendere nota.

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