‘Non c’era un intento abietto’
Sieropositivo non in terapia, non informò la partner: colpevole di tentate lesioni gravi per dolo intenzionale. La Corte: ‘Non può non aver considerato la trasmissione’.
«Non può non aver preso in considerazione l’ipotesi della trasmissione. Dagli atti però non emerge l’aggravante dell’animo abietto (previsto dalle norme entrate in vigore nel 2016, corrispondente sostanzialmente a un’intenzionalità particolarmente meschina, ndr)». La Corte presieduta da Amos Pagnamenta ha valutato così – condannando a tre anni e sei mesi un uomo – il delicato caso discusso ieri alle Assise criminali di Lugano. L’imputato – un cinquantenne italiano residente da sempre in Ticino – ha avuto rapporti sessuali non protetti con una donna, pur essendo sieropositivo (e senza aver iniziato le cure, che oggi segue) e nella maggior parte dei casi senza che lei ne fosse a conoscenza. Dopo aver appreso di aver contratto il virus dell’Hiv – siamo a fine 2017 –, l’uomo ha avuto svariati rapporti sessuali con colei che di fatto ne era l’amante: la Corte ne ha riconosciuti nove, «credendo alla versione della donna e alla sua reazione di paura genuina». Un decimo rapporto non è stato riconosciuto sanzionabile in quanto lei era già a conoscenza del suo stato e ha comunque acconsentito al rapporto. L’imputato ha saputo della sua sieropositività dopo che a sua volta la compagna è stata riscontrata positiva al virus, contagiata proprio dall’accusato. Quest’ultimo caso di trasmissione non è tuttavia perseguibile, in quanto i rapporti si sono svolti senza che le parti fossero a conoscenza che una delle due fosse infetta. L’uomo ha ammesso i fatti e la Corte ha riconosciuto il reato di ripetute tentate – la donna è fortunatamente rimasta sieronegativa – lesioni gravi per dolo eventuale, in quanto avrebbe dovuto presumere che sarebbe potuta essere contagiata. Una consapevolezza aggravata dalla sua sieropositività: «Ben conosce – ha detto il giudice – le conseguenze e la sofferenza psicologica, oltre ai pregiudizi evidentemente ingiustificati, che l’Hiv comporta».
‘Non sono più infettivo’
Il riferimento del giudice è anche alle difficoltà raccontate in aula sia dalla legale Luisa Polli che dall’imputato stesso, che quest’ultimo ha riscontrato nella convivenza in carcere a causa dello stigma che ancora oggi avvolge il virus e la malattia a cui è legato: l’Aids. «Non siamo negli anni Novanta, mi sto curando: la dottoressa mi ha detto che non sono più infettivo» ha detto lui. «Sta vivendo una carcerazione difficile – ha confermato lei –: tutti i giorni deve affrontare ignoranza e discriminazione a causa di alcuni compagni di detenzione». L’imputato è stato per contro prosciolto – come richiesto dalla difesa – dal reato di tentata propagazione di malattie dell’uomo, proprio perché pur essendo stato consapevole del danno che avrebbe potuto arrecare, non è emersa la chiara volontà di farlo con motivi abietti. La ragio-
ne principale del suo agire è stata riconosciuta invece nell’egoismo. Un movente che la Corte ha riscontrato anche per i reati legati all’infrazione della Legge federale sugli stupefacenti: l’uomo ha infatti ammesso di aver spacciato a consumatori locali oltre mezzo chilo di eroina, come anche quantitativi inferiori di altre droghe (dalla marijuana alla cocaina). «È un ex tossicodipendente – ha ricordato Pagnamenta – e conosce perfettamente le condizioni nelle quali finisce a trovarsi chi consuma eroina. Ha agito per puro scopo di lucro». «L’ho fatto perché ero senza lavoro e desideravo avviare un’attività in proprio (nella gastronomia, poi effettivamente iniziativa, ndr) e avevo bisogno di soldi», si è giustificato. Al cinquantenne è stata così inflitta una pena di tre anni e sei mesi, così come chiesto dalla procuratrice pubblica Pamela Pedretti, oltre a un’espulsione – automatica vista la gravità dei reati in ambito di stupefacenti – per cinque anni, tre in meno di quelli ipotizzati dalla pp, che ha sottolineato: «Pur di soddisfare i propri bisogni non si è fatto scrupoli».