Good Times, Bad Times
Mollato da cantante e batterista, Jimmy Page si guarda intorno per la programmata tournée scandinava degli Yardbirds. E trova Robert Plant…
E che vogliamo fare, una recensione del “Led Zeppelin I”? Nel giorno del cinquantesimo anniversario? Commemorando il momento in cui per la prima volta le cinque scariche elettriche della chitarra di Jimmy Page, intro di “Good times bad times”, sono passate sotto la puntina di un giradischi? Certo. Ma non solo. Perché c’è una storia da raccontare. Perché quelle cinque scariche elettriche hanno dato inizio a un’epopea della storia del rock. Perché senza i Led Zeppelin, scusate, di che mondo staremmo parlando? E come poteva nascere un gruppo di rottura, rivoluzionario, che ha consumato ogni tipo di droga e vissuto ogni tipo di esagerazione degna della vera rock’n’roll star se non per obblighi contrattuali e rispetto delle regole? Scontenti della piega hard che stavano prendendo gli Yardbirds, il cantante e il batterista salutarono tutti e lasciarono il chitarrista Jimmy Page a smazzarsi l’obbligo contrattuale, appunto, di una tournée in Scandinavia. Page si guardò attorno e chiese a quell’autentico antieroe di Terry Reid di entrare nel gruppo come cantante. Antieroe, sì, perché il buon Reid rifiutò. Come rifiutò, neanche un anno dopo, di entrare nei Deep Purple. Non andò malaccio, visto che le seconde scelte sono state Ian Gillan per i Deep Purple e Robert Plant per i nascituri Led Zeppelin. Plant portò quel fantastico picchiatore di pelli da tamburo di John Bonham e, con l’arrivo di John Paul Jones, tutto ebbe inizio.
Led Zeppelin I è pura transizione, è un diamante grezzo
E come poteva iniziare l’epopea di una delle più influenti e grandi rock band se non con un album di transizione? Sì perché scordiamoci il riff iniziale di “Whole lotta love”: arrivò col secondo disco, nove mesi dopo quel gran 12 gennaio 1969 – quasi fosse il figlio maturo e ribelle del primo. E lo è stato. Scordiamoci anche la tostissima “Immigrant song” e una delle vette della musica e della poesia, “Stairway to heaven”: anche per quelle ci vollero anni, tempo, maturazione. Il “Led Zeppelin I” è pura transizione, è un diamante grezzo, è creta un po’ plasmata e un po’ no. È ruvido come carta vetrata nell’approccio, elegante nella sua impronta ancora tutta blues. Però sporco e dannatamente rock in quello che già si capiva sarebbero diventati i Led Zeppelin: uno dei tornanti della storia. Lo si capiva nella perfetta fusione tra chitarra acustica ed elettrica, in un rullante che no, così, prima, non era mai stato pestato. Lo si capiva nei testi – sesso, donne, affari di cuore, anche tormenti amorosi ma non smielati alla ‘Love me do’ targata Lennon/McCartney, roba forte qui –, nei cambi di ritmo improvvisi che facevano un poco – poco davvero, ma tant’è – il verso a quell’altra grande meraviglia che stava prendendo forma, il progressive. Lo si capiva quando Page registrò l’intermezzo di “Dazed and confused” suonando la sua chitarra con un archetto da violino. Era tutto pronto. Bastava andare avanti. Grazie al cielo l’hanno fatto, ed eroina e vodka hanno avuto la meglio solo una decina d’anni dopo. Stordendo malissimo Jimmy Page la prima, uccidendo John Bonham la seconda. Ne bevve 40 shot prima di morire soffocato nel suo vomito, ma negli ultimi concerti non stava sullo sgabello neanche sorretto da un argano. Non fu questa la vera fine. Del gruppo sì, si sciolsero. Non dell’epopea. Che si è chiusa nel 2012, ai Kennedy Center Honors, quando sono stati premiati per quanto portato alla vita culturale degli Stati Uniti e del mondo. Con loro in tribuna, eleganti e anziani. L’ultima canzone tributata, ovviamente, “Stairway to heaven”. Alla batteria il figlio di Bonham, alla voce Ann Wilson degli “Heart”. E un coro gospel, ad accompagnare uno dei più clamorosi finali mai composti per una canzone. L’inquadratura della televisione su Robert Plant prima con gli occhi lucidi, poi in lacrime. Che continua a deglutire per mascherare l’emozione. Che tende i muscoli del collo. E che alla fine sorride. Con la tenerezza propria solo di chi è stato un vero ribelle.