La Rosa rossa e le tragedie del ’900
La sera del 15 gennaio del 1919 un drappello di soldati fece irruzione in un’abitazione di Wilmersdorf, quartiere dei sobborghi di Berlino. Lì si erano nascosti Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, i due esponenti più noti, e più odiati, della Lega di Spartaco («Spartakusbund»), movimento che negli ultimi anni della guerra aveva intensificato la propaganda antimilitarista. Sia Karl che Rosa avevano alle spalle numerosi anni di carcere; ma questa volta sembrava che le rivolte, spesso spontanee e caotiche, scoppiate nei giorni di Natale e al principio di gennaio potessero sfociare in una vera rivoluzione (...)
Segue dalla Prima (...), guidata dai consigli dei soldati e degli operai. In realtà la Lega di Spartaco e gli altri gruppi radicali che l’affiancavano non avevano fatto i conti con la reazione, affidata ancora una volta all’esercito e alle unità paramilitari («Freikorps») che si erano formate all’indomani dell’abdicazione del Kaiser. La strada imboccata dalla «deutsche Republik» e dal governo Ebert-Scheidemann, entrambi socialdemocratici dell’ala moderata (detta anche «socialdemocrazia di maggioranza»), mirava a ristabilire nel paese la calma e l’ordine, all’interno di una cornice repubblicana frutto di libere elezioni. Non così la Lega di Spartaco, che invece intendeva affidare il potere ai consigli sorti nelle fabbriche e in alcune caserme, primo passo verso la «dittatura del proletariato» d’impronta leninista.
Lo spettro del bolscevismo
Ma proprio quanto era avvenuto in Russia nell’ottobre del 1917 atterriva i ceti dominanti, la vecchia aristocrazia, i magnati dell’industria, i proprietari terrieri, la piccola borghesia impiegatizia. E naturalmente i vertici dell’esercito, usciti umiliati dal conflitto ma ancora in grado di interferire nelle scelte politiche e di condizionarle pesantemente. Fu dunque su queste basi che si fece strada l’alleanza tra la maggioranza della Spd e il Comando supremo dell’esercito volta a reprimere le correnti di sinistra influenzate dal bolscevismo. Lo Stato maggiore assicurò a Friedrich Ebert il suo appoggio per liquidare militarmente il movimento consiliare. La contro-rivoluzione fu feroce; i soldati, reduci dalla lunga guerra di trincea, mitragliarono e cannoneggiarono senza sosta la sinistra radicale, che nel frattempo si era riorganizzata fondando il Partito comunista di Germania (Kpd). La campagna repressiva proseguì fino ai primi di maggio, con l’annientamento della Repubblica di Monaco; migliaia gli arresti e le fucilazioni; devastate le tipografie e le sedi dei militanti. Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, i principali ricercati, furono trucidati all’istante; Rosa, il cranio fracassato, fu gettata in un canale di Berlino, il Landwehr, da cui emerse solo quattro mesi dopo.
Spaccature continue
I fatti di sangue dei mesi a cavallo del ’18 e del ’19 lasciarono sul terreno non soltanto morti e feriti, ma anche una lunga scia di astio e recriminazioni reciproche. Tra l’ala maggioritaria della socialdemocrazia (al governo con i liberali e i cattolici) e la Kpd la frattura si fece insanabile: fu una lacerazione permanente e velenosa che finì per rendere instabile la Repubblica di Weimar, favorendo l’ascesa del nazionalsocialismo. Occorre tuttavia ricordare che il fronte della sinistra si era già frazionato in precedenza, e non soltanto in Germania. I dibattiti della «belle époque» su riforme o rivoluzione, sullo sciopero politico di massa come strumento di pressione, su pacifismo e militarismo, su parlamentarismo e azione diretta non avevano fatto l’unanimità, al contrario. I congressi dell’Internazionale socialista non riuscirono mai ad appianare le divergenze sui mezzi e i fini della lotta. Alla socialdemocrazia tedesca, il partito meglio organizzato dell’epoca, i compagni russi guidati dal giovane Lenin rimproveravano passività e acquiescenza al Reich, e di predicare la rivoluzione senza muovere un dito per realizzarla. Nel suo Che fare? del 1902 indicò una strada che elevava il partito a reparto di avanguardia del proletariato, disciplinato al suo interno e diretto da rivoluzionari votati alla causa: «deve porsi alla testa della classe operaia, deve vedere più lontano della classe operaia, deve condurre dietro a sé il proletariato e non trascinarsi alla coda del movimento operaio».
Socialdemocratici corresponsabili
Lo scoppio della guerra, nell’agosto del 1914, aveva messo a nudo i limiti dell’Internazionale, che di fronte all’appello nazionalista dei singoli paesi (in primis di Germania e Francia) si ritrovò impietrita e incapace di reagire. Rabbioso fu il commento della Luxemburg dinanzi a tale fallimento mentre scontava l’ennesima pena per agitazione antimilitarista nel penitenziario femminile di Berlino: «La socialdemocrazia, grazie ai suoi capi, ha svolto non una politica sbagliata, ma semplicemente nessuna politica, si è pienamente disgregata come specifico partito di classe con una propria Weltanschauung, ha abbandonato il paese senza una guida critica allo spaventoso destino della guerra imperialistica all’esterno e della dittatura militare all’interno, e si è assunta per di più la responsabilità della guerra».
La guerra, vaso di Pandora
Da questo trauma il movimento operaio e socialista non si riprese mai del tut- to; i tentativi di far tacere le armi in Europa avanzati nelle conferenze di Lugano (1914), Zimmerwald (1915) e Kiental (1916) ebbero un’eco flebile. Solo nell’ultimo biennio del conflitto fu possibile riprendere l’iniziativa, attraverso manifestazioni di piazza e scioperi nei centri industriali. La rivoluzione russa parve dar ragione a Lenin e ai bolscevichi, ossia che occorresse trasformare lo scontento e la frustrazione delle popolazioni ormai ridotte allo stremo in processo rivoluzionario. E tuttavia anche questa soluzione finì per generare nuove scissioni e per secernere nuova bile, come fu il caso in Germania, ma anche in Italia, dopo l’armistizio. Gli storici sono concordi nell’affermare che la prima guerra mondiale fu il vaso di Pandora, l’incubatrice, la «catastrofe originaria» delle tragedie che sconvolsero l’Europa nella prima metà del secolo, una guerra civile durata trent’anni. La vicenda di Rosa Luxemburg va inserita in questo quadro, una danza macabra fatta di speranze e delusioni, slanci generosi e rovinose illusioni palingenetiche. Anche lei – mente brillante, poliglotta, con laurea conseguita a Zurigo in economia politica – decise di gettarsi anima e corpo nell’immenso vortice che le diplomazie avevano scatenato come sonnambuli, senza rendersi conto che in quella corsa verso l’abisso avevano risvegliato i peggiori spiriti infernali portati in grembo dalle grandi potenze.