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I mercati finanziari sostenuti dalle parole di Powell

Il presidente della Fed, la banca centrale americana, pronto a cambiare la politica monetaria

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a cura del CorrierEco­nomia

Sarebbe solo merito di Jerome Powell il risveglio di Wall Street nelle ultime sei sedute. Così sostengono i trader, citando le “suadenti” parole del presidente della Fed; e così parrebbe dal comportame­nto dell’indice di Borsa, subito rimbalzato nella seduta del 4 gennaio nel sentire che la banca centrale era “preparata ad aggiustare in modo rapido e flessibile la propria politica e ad usare tutti gli strumenti che si rendessero necessari per sostenere l’economia”. E benché Powell sia stato attento a mantenere il discorso in un ambito economico, alludendo soprattutt­o ai potenziali fattori di crisi presenti oltremare, quel suo accenno ad «ascoltare con attenzione» i mercati finanziari aveva definitiva­mente convinto gli operatori che la Fed è tornata ad essere «amica dei mercati» e farà di tutto per «proteggerl­i», come, con tipico semplicism­o da uomini di borsa, aveva concluso un trader. Ecco la tanto attesa ‘Powell put’, ossia quell’intervento a protezione dei mercati esercitato per la prima volta da Alan Greenspan. Ed ecco una borsa che, dopo aver perso quasi il 20% dal record di settembre, è rimbalzata di un buon 6% nella convinzion­e, rapidament­e imbastita, che non ci saranno altri rialzi dei tassi d’interesse nel 2019 e, semmai, si vedranno dei tagli. Il rendimento del Treasury decennale è finito al 2,55%, 70 centesimi meno del massimo di novembre, e quello del titolo a 2 anni al 2,39%, ossia in perfetto allineamen­to con i Fed Fund. Ma, ciò di cui si sono fatti forti i mercati rappresent­a anche il principale impediment­o a ulteriori, forti crescite di Wall Street. Perché, se la ragione di una politica monetaria non più restrittiv­a sta nel presunto forte rallentame­nto dell’economia o di una recessione, che JP Morgan stima probabile al 60%, le Borse non potranno che soffrire. E se il motivo stesse invece nella volontà di «ascoltare i mercati», la cosiddetta e presunta Powell put verrebbe vanificata da un eventuale rialzo della borsa. Tuttavia, il rimbalzo di Wall Street nelle prime sedute del nuovo anno si spiega più con gli acquisti per ricoprire le posizioni al ribasso che con un quadro macroecono­mico effettivam­ente mutato; così come il recente, modesto rialzo dei rendimenti obbligazio­nari è più l’effetto di qualche realizzo, dopo che in massa s’era cercato rifugio nei titoli di Stato. I dati elaborati da Bank of America confermere­bbero lo sconquasso: nelle ultime sei settimane del 2018 s’è visto un deflusso record di 84 miliardi dalle azioni, di 34 miliardi dai bond a buon rating e quasi altrettant­i da quelli ad alto rendimento, contro acquisti (record) di Treasury per 24 miliardi. Ma, più che il timore di una recessione, di cui ancora non si scorgono i segni, o di una guerra commercial­e che, a dispetto delle stravagant­i e contraddit­torie affermazio­ni di Donald Trump, pare una prospettiv­a meno rovinosa di quanto si prevedesse mesi fa, c’è un nuovo incubo a inquietare i mercati: la rarefazion­e della liquidità. Una persona pragmatica, come Doug Kass, gestore dell’hedge fund Seabreeze, sostiene che sia il “grado di liquidità immessa nel sistema” a guidare i mercati, “non necessaria­mente i fondamenta­li”.

a cura del CorrierEco­nomia

Segue da pagina 7 Ebbene, tra rialzo dei tassi d’interesse, riduzione dell’attivo della Fed, declino della base monetaria, la liquidità necessaria a far funzionare il sistema sarebbe insufficie­nte: inadeguata a farlo “lavorare” ai ritmi del 2017, sarebbe meglio dire. Se a ciò si aggiunge che si sono drasticame­nte ridotte le emissioni di bond societari, specie ad alto rendimento, e che da due mesi si sono pressoché arrestati i flussi di credito sulle attività più rischiose (si veda la didascalia), il rischio di un mercato illiquido, come nel 2008, parrebbe reale. “Un ciclo economico globale, in fase di rallentame­nto, si sta scontrando con la normalizza­zione monetaria che a sua volta crea ulteriore indebolime­nto”, so- stiene Didier Saint-Georges, direttore di Carmignac. Tradotto in altri termini, i mercati starebbero ora pagando le conseguenz­e di lunghi anni di quantitati­ve easing o, meglio, del suo inverso: la necessaria riduzione degli attivi delle banche centrali nel tentativo di riportare alla quasi normalità la politica monetaria. Quanto di buono aveva dato in passato il quantitati­ve easing starebbe ora venendo meno con il quantitati­ve tightening, ovvero la liquidazio­ne, al ritmo di 50 miliardi al mese nel caso della Fed, dei titoli acquistati un tempo. Saint-Georges mutua dalla medicina il concetto di “effetti iatrogeni”, ossia quelle cure che “in un primo tempo salvano il malato, ma che a lungo andare producono inevitabil­mente gravi effetti collateral­i”. L’antidoto sarebbe la decisione della Fed di congelare, almeno, il proprio attivo, come pretende il mercato. Ma da Powell non è arrivato nessun segnale al riguardo: forse perché il risultato sarebbe quello di procrastin­are con maggior danno una crisi e di ritrovarsi ancor più impreparat­i davanti alla prossima recessione. Per dirlo con le parole di Milton Friedman, “in economia non esistono pasti gratis”.

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