Le Metamorfosi nel Novecento
Buona prova dell’Osi sotto la (incerta) guida del direttore Yuri Bashmet
Alla fine della seconda guerra mondiale, ma anche alla fine della loro vita Richard Strauss (1864-1949) e Thomas Mann (1875-1955) deplorarono le colpe della Germania di Hitler con due opere che sono forse i loro capolavori: lo studio per ventitré archi soli “Metamorphosen” e il romanzo “Doctor Faustus”. Poco importa che la presa di coscienza dell’orrore nazista in Strauss fu tardiva, meno attendibile che in Mann; le due opere evocano quella storia della musica del primo Novecento che corre parallela e in parte spiega l’avvento del nazismo. Si poteva leggere questo messaggio criptico nel programma presentato giovedì scorso all’Auditorio Stelio Molo dall’Orchestra della Svizzera Italiana, riservato a musiche del primo Novecento. Esso contrapponeva a “Metamorphosen” due opere del 1911 di Max Bruch (1838-1920): la Romanza per viola e orchestra e il Concerto per clarinetto, viola e orchestra, lavori avulsi dalla temperie culturale del tempo, se si pensa che nel 1911 Picasso aveva già dipinto “Les demoiselles d’Avignon”, Joyce stava lavorando al suo “Ulysses”, Schönberg stava per presentare il suo “Pierrot lunaire”. Il “Doctor Faustus” è anche un’apologia della musica dodecafonica, del coraggio del nuovo, che culmina nell’affermazione: “La dissonanza si fa espressione di ogni realtà nobile, seria … mentre l’elemento armonico e tonale è riservato all’universo della banalità e dei luoghi comuni”. Nelle sue Metamorfosi Strauss smarrisce la tonalità, ma non il rimpianto del suo apogeo nella musica classica, reso flagrante dalla contrapposizione alle due opere di Bruch, di una banalità armonica sconcertante. Come non ricordare allora un altro scrittore tedesco, diventato ticinese d’adozione: Alfred Andersch (1914-1980), che in “Der Vater eines Mörders” descrive il padre del criminale nazista Heinrich Himmler, suo insegnante di latino e greco al Liceo di Wittelsbach, quando terrorizzava gli allievi nel nome di una aulica cultura classica. Siamo ben coscienti oggi di come il culto del passato possa essere la copertura di un agire criminale. Direttore e solista di viola era Yuri Bashmet, un nome prestigioso, arrivato a Lugano in condizioni fisiche che avrebbero dovuto sconsigliare l’apparizione in scena. Ci sono volute vere prodezze della nostra magnifica orchestra, in particolare del solista di clarinetto Paolo Beltramini, per assecondarlo e riuscire a produrre esecuzioni almeno dignitose. Dico di più: se nelle impervie “Metamorphosen” ci fosse stata una traccia di guida al fraseggio dei ventitré solisti, ne sarebbe probabilmente uscita una interpretazione memorabile. Il programma si chiudeva con la Sinfonietta classica di Prokof’ev, un po’ fuori contesto, ma sempre brillante per qualsiasi apertura o chiusura di concerto. Nell’esecuzione di giovedì si è avvertita soprattutto l’ansia degli orchestrali di chiudere in fretta e mandare il direttore a riposare.