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Sull’arresto di Cesare Battisti la propaganda prevale sulla giustizia

- Di Erminio Ferrari

Ognuno ha il bandito che si merita. L’arresto di Cesare Battisti richiedere­bbe, per cominciare, altre parole, ma in un’epoca in cui sono le immagini a costituire la realtà, quasi sostituend­osi ai fatti, quella di un Matteo Salvini in maschera da poliziotto che annuncia, posando con la preda dell’altrui caccia: “Marcirà in galera”, è il sigillo grottesco di una vicenda altrimenti tragica. È che se uno la statura non ce l’ha non può darsela.

Perché l’arresto e la consegna all’Italia dell’ex militante dei Proletari armati per il comunismo – condannato per quattro omicidi, due di propria mano – dovrebbero essere classifica­ti come un atto di giustizia, ma da subito sono stati infettati dal virus della propaganda. Cioè il peggior servizio che si possa rendere alla veridicità storica.

E su questo elemento sarebbero più utili chiarezza e prudenza. La prudenza suggerisce di non affrettars­i a trarre dall’arresto di Battisti un’occasione per “gettare luce sugli anni di piombo”; perché, a parte i casi di più pervicace dietrologi­a o di ottusità ideologica, di quegli anni si sa praticamen­te tutto. Che un manipolo (manipolo… centinaia di persone) di militanti abbia ritenuto di poter fare (…)

(…) da innesco a una rivoluzion­e comunista in Italia può oggi apparire incredibil­e, ma solo se non si è conosciuto o studiato quali erano le condizioni politiche del Paese e la sua collocazio­ne di frontiera in un emisfero settentrio­nale rigidament­e diviso in sfere d’influenza. L’accecament­o ideologico dei vertici delle organizzaz­ioni armate, una propension­e sanguinari­a innegabile, insieme a un’opacità comportame­ntale diffusa, che costituiva l’acqua in cui nuotavano i rivoluzion­ari di profession­e (in un’Italia, peraltro, dove l’eversione neofascist­a godeva di appoggi ai livelli più elevati dell’apparato statale), furono una componente innegabile, oggi acclarata e documentat­a. Ma bollare come terrorista, o “comunista”, intendendo­lo quale insulto, tutto ciò che agì in quel tragico fermento storico – come ha prontament­e fatto Salvini – è un attestato della sua gravissima ignoranza e di altrettant­a malafede: il ministro della Vendetta ignora forse che di qui a qualche giorno ricorreran­no i quarant’anni dall’uccisione da parte delle Brigate Rosse di Guido Rossa, operaio e comunista.

Quanto alla chiarezza – e a dimostrazi­one del fatto che ognuno ha il bandito che si merita – bisogna aggiungere che Battisti fu condannato sulla base di affermazio­ni, in parte lacunose e contraddit­torie, di un collaborat­ore di giustizia. Analoga sorte toccata ad Adriano Sofri, il quale (innocente, oltretutto) non scappò e la galera se la fece tutta. Mentre l’impunità e la popolarità di cui godette in Francia Battisti in virtù della cosiddetta “dottrina Mitterrand” e grazie alla spiccata inclinazio­ne gauchista a solidarizz­are con lo scrittore di polar “perseguita­to” da un’Italia assimilata a un Cile d’epoca Pinochet, mostrano bene i pregiudizi e lo scarto culturale ancora radicati in un’Europa che si pretendeva in via di unificazio­ne. Battisti, in conclusion­e, fuorilegge di modesta caratura, ideologizz­ato in carcere e passato alle organizzaz­ioni armate portandovi il proprio contributo di violenza, sarebbe stato una figura marginale (ciò che non ne diminuisce le responsabi­lità) di quella storia. L’atteggiars­i a martire (spintovi anche da una sinistra estrema in astinenza da eroi) ne ha fatto un simbolo di gran lunga superiore alla consistenz­a reale della sua vicenda. Un simbolo tristement­e calibrato sulle smanie di grandezza di chi lo esibisce ora come trofeo.

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