Il momento è critico (da Sanremo a Montreux, via Lugano)
Segue dalla Prima (...) si è evoluta, involuta, sputtanata, è risorta dalle ceneri, fino al ritorno dell’orchestra dal vivo e al perfezionamento di un prodotto senza pari, laddove si suoni e si canti per 5 ore a sera. Tra i depositari della conoscenza sanremese c’è Dario Salvatori, critico musicale, scrittore, conduttore radiofonico, lanciato nel mondo dello spettacolo dai programmi a tema giovanil-musicale prodotti dalla creatività della coppia Arbore-Boncompagni. Responsabile artistico del patrimonio sonoro della Rai, se devi chiedere qualcosa su Sanremo a qualcuno, puoi cercare la camicia più sgargiante al Roof dell’Ariston. E lui ti risponderà.
Il signor Donaggio ci andò giù pesante nel ’75. Ma era un’epoca in cui i critici musicali decidevano le carriere degli artisti...
Il critico musicale è morto di morte naturale. Nei quotidiani non c’è più, c’è il presentatore delle cose che avverranno durante il giorno. La critica, in qualche modo, la trovi qui a Sanremo e poi nei grandi eventi, se arrivano Paul McCartney o gli U2. Quella cinematografica, invece, ancora c’è.
Cos’è successo?
Ti spiego il degrado di questo mestiere. Prima il critico era una delle figure più coccolate. Io ho lavorato per molti quotidiani, e 15 anni li ho trascorsi al Messaggero, dove c’era la stanza dello spettacolo, quella della cultura, e poi c’era la redazione dei critici, al piano di sopra. Un piano che ospitava il critico di musica classica, quello di teatro, c’era persino il critico del balletto. Lassù c’era gente che poteva spostare le cose. Ora non più.
La qualità ci rimette?
Ci rimettono i giornali perché inseguono la rete e si mordono la coda. Ma i quotidiani non moriranno, avranno sempre più un ruolo d’élite e d’autorevolezza. Quello che sparirà sarà il vecchio quotidiano di 60 pagine generalista. Ma ci sarà sempre chi vorrà leggere i nomi che s’identificano nella testata, anche se i maestri sono rimasti in pochi. C’erano Montanelli, Biagi. Forse l’unico che è lo specchio del giornale è rimasto Feltri.
Con rapper e trapper in questi giorni si parla di rivoluzione. Ma il Festival può essere rivoluzionario?
Per tutti gli anni 50 il Festival è stato Claudio Villa, Luciano Tajoli, Nilla Pizzi, Gino Latilla. Ma i Festival del 1960 e del 1961 furono davvero rivoluzionari. Prova ad immaginare un anno in cui piomba un drappello così costituito: Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Jimmy Fontana, Edoardo Vianello, Mina, Gino Paoli. Era il nuovo che avanzava, e avanzò di brutto ed è ancora fra noi. Le canzoni avevano successo e duravano fino all’estate. Oggi è tutto più frettoloso e momentaneo. Ma non è questo il problema, piuttosto l’omologazione del gusto, non più determinato dalla radio, ma dalla rete.
È consentito parlare di altra musica questa settimana??
Parliamo di Montreux, sono un appassionato. È stato il primo festival europeo in grande stile. Claude Nobs chiamava gli americani, che a Montreux ci venivano apposta. Lì ho visto Miles Davis, Quincy Jones, John McLaughlin, Sonny Rollins. Nobs, i viventi, li ha portati tutti, compresi i grandi del rock. Un festival un po’ snob, entrare non era proprio economico, nemmeno andare al bar, però dava molto. L’ho seguito per più di 15 anni.
E poi c’è Estival...
Lugano non è solo il buen retiro di Mina, Rita Pavone, Caterina Valente, che è un po’ la loro mamma. Franco Ambrosetti e il padre Flavio me ne parlarono. Quell’anno suonavano con Pierre Favre, George Gruntz. Era bello vederli improvvisare. E poi tutti a casa Ambrosetti.
La musica svizzera?
Gli artisti svizzeri ho imparato a conoscerli dall’Eurovision, e qualcuno è stato anche piuttosto popolare in Italia. A parte Masha Cantoni, la mia presentatrice preferita, bellissima, bravissima, garbata, qualità che sono sfumate via. Mi viene in mente Anita Traversi che debuttò con Celentano. La chiamavano la Mina svizzera, perché urlava anche lei...
Dimenticavo: quanti Festival hai visto?
Con quello di quest’anno sono 43.