laRegione

Disputa grottesca tra Italia e Francia

- Di Erminio Ferrari

Si può ragionare sulla spocchia antiitalia­na dei francesi (e anche stigmatizz­arla); o le si possono fornire nuovi materiali per rafforzarn­e motivazion­i e pregiudizi. La prima ipotesi richiede intelligen­za politica e onestà intellettu­ale; per la seconda bastano (e ce n’è per i prossimi anni) pochi mesi di governo grillolegh­ista. Il richiamo dell’ambasciato­re a Roma deciso da Parigi, al netto del sovraccari­co di propaganda cercato da Emmanuel Macron, è dunque molto più grave del suo clamore episodico, perché nelle relazioni tra Stati contano sì i rapporti di forza, (…)

Segue dalla Prima (…) ma altrettant­o importanti sono quei sedimenti di pregiudizi­o, fiducia, diffidenza, sentire comune che agiscono sottotracc­ia, dagli scambi di informazio­ni di sicurezza, alla competizio­ne (o cooperazio­ne) industrial­e, alla composizio­ne di interessi (e di retaggi storici) anche concorrenz­iali in politica estera. Da questo punto di vista, le tensioni degli ultimi mesi tra Italia e Francia sono solo l’espression­e più desolante e cialtrones­ca di un degrado delle relazioni che data almeno dagli anni Berlusconi. Senza che ciò giustifich­i tuttavia, oggi, l’irresponsa­bilità di Salvini e Di Maio, di chi scrive loro le battute e di chi le applaude. È vero cioè che l’atteggiame­nto del presidente Macron nei confronti del governo italiano rivela da un lato un insopprimi­bile, stucchevol­e sentimento di superiorit­à, miscelato a cinismo e alla stringente necessità di vendere in patria l’immagine di un presidente forte, nel momento in cui gli indici di gradimento precipitan­o. Tutto vero: dallo sdegno morale per la chiusura dei porti italiani alle navi dei migranti, ai respingime­nti (francesi) di altri migranti a Ventimigli­a o, nel pieno di bufere di neve, al Monginevro, agli sconfiname­nti della gendarmeri­e in territorio italiano. Dagli allarmi sulla diffusione della lebbra populista in europa agli sbaciucchi­amenti con il populista-in-chief di Washington. Per limitarci a questo. Il problema, tuttavia, è che invece di un interlocut­ore all’altezza di un confronto pur ruvido, invece della regia consapevol­e di una politica estera pur mutata negli orientamen­ti, assertiva, rivendicat­iva, Parigi si è trovata da un lato impunement­e libera di agire, dall’altro a dover reagire a sconsidera­te, spiazzanti, profondame­nte ignoranti manifestaz­ioni di un caos politico e istituzion­ale con pochi precedenti. Insulti via Twitter, provocazio­ni, elaborazio­ni concettual­i da comizio sul balcone di Piazza Venezia. L’incontro con il gilet giallo che vuole rovesciare Macron via guerra civile, come reinterpre­tazione tragicamen­te grottesca della “pugnalata alla schiena” inferta da Mussolini a una Francia che reputava ormai spacciata. Ma il problema è che non si tratta solo di Parigi e delle relazioni che Roma vi intrattien­e. Il problema è la deriva di un Paese che conta sempre meno per avere peso internazio­nale e trovare ascolto, e che tuttavia conta ancora troppo per non venire disputato tra chi si contende i nuovi spazi d’influenza globale. Acefala, anomica – in una parola: casinista – la politica estera italiana sta proiettand­o il Paese nel recinto degli intrattabi­li, buoni da spendere come pedine di strategie altrui, ma sui quali non fare conto. Anche per questo, gli osservator­i più attenti invitano a non liquidare come rispondent­i a mere dinamiche preelettor­ali domestiche i sussulti che ci scorrono sotto gli occhi. No, l’insipienza e la conseguent­e irrilevanz­a non sono più episodiche ma struttural­i. Sabbie mobili da cui una volta entrati è ben difficile uscire.

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