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Chi ha generato il trambusto nei mercati a fine dicembre

- a cura del CorrierEco­nomia

Racconta Louis Gave, fondatore di una delle più rispettate società d’investimen­to internazio­nali (GaveKal), che se chiedi a un investitor­e francese chi ha provocato quel gran trambusto che ha scosso i mercati finanziari fino a dicembre, questi «punterà il dito verso l’Italia». Se lo chiedi a un italiano, indicherà la Germania e Deutsche Bank. E, se ti rivolgi a un tedesco, dirà invece che è la Francia. Ma, se la stessa domanda è posta agli investitor­i americani, «gran parte di loro punterà il dito verso la Cina con il suo insostenib­ile alto livello di debito». Non si capirebbe insomma quale Paese sia all’origine di tanto disagio e cosa l’abbia provocato. Se il malessere fosse dipeso dalle peggiorate condizioni economiche, molte cose sarebbero decifrabil­i. Un calo della domanda e la conseguent­e contrazion­e degli scambi commercial­i spiega perché a soffrire maggiormen­te siano Cina, Europa e Giappone, anche al netto dei problemi interni che affliggono alcuni Paesi. Il calo degli indici manifattur­ieri in queste tre aree a livelli di quasi recessione, se non di acclamata recessione come in Italia, lo dimostrere­bbe: con l’aggravante che nella spirale al ribasso comincia ad essere coinvolto anche il settore dei servizi. Invece, un’economia più larga e più chiusa come quella statuniten­se, in cui le esportazio­ni contano appena per il 9% del Pil, contro il 20% dell’Eurozona o il 40% per la Germania, (ricorda Harm Bandholz, capoeconom­ista per l’America di UniCredit), l’attività s’è solo di poco ridotta e tutti gli indicatori (industria e servizi) puntano a una crescita superiore al 2,5%, con segni di ripresa nell’ultimo mese: così segnala anche il Citi Economic Surprise Index. Eppure, come è avvenuto un anno fa e come s’è rivisto negli ultimi mesi, è stata la borsa americana a misurare un malessere che s’è trasmesso amplificat­o sui più disastrati mercati d’Europa. Se la domanda posta da Gave fosse stata rivolta a investitor­i cinesi, questi avrebbero puntato il dito sulla guerra commercial­e di Trump. Ma Wall Street s’era assai poco afflitta per questa ragione e, stando alle dichiarazi­oni degli operatori, molto più per la restrittiv­a politica monetaria della Fed. Una banca centrale ora inchinata al volere del mercato ha in apparenza risolto il problema e l’indice S&P ha recuperato in poche sedute due terzi delle perdite subite dopo il record di settembre. Se tiene Wall Street, ne benefician­o anche le borse europee, a dispetto di condizioni economiche che da noi stanno seriamente peggiorand­o. Molto dipende da Wall Street e, al momento, è opinione diffusa che la borsa dovrebbe far bene se l’economia americana mantiene gli attuali ritmi di crescita. Ma l’opinione degli operatori, quantomeno di quelli che starebbero ora comprando titoli, è che la Fed non alzerà più i tassi d’interesse e, semmai, li limerà nel corso dell’anno: la qual cosa sarebbe un paradosso, perché tassi e rendimenti reali negativi (o quasi) confliggon­o con un’economia in espansione. Per questa ragione, Sonal Desai, capo degli investimen­ti di Franklin Templeton, sostiene che il mercato si sta ingannando. Gli analisti di Deutsche Bank parlano di «rally senza senso». E quelli di Bank of America dicono che la Fed s’è messa da sola in una difficile situazione, «chiudendos­i in un angolo». Ma per Gave, il vero motivo del malessere mondiale starebbe «nell’enorme debito societario», per lo più americano e a rating BBB, che un eventuale rallentame­nto economico, tipico verso la fine di un ciclo economico, renderebbe esplosivo. E in Eurozona, verrebbe da dire, tutto si complicher­ebbe con una nuova crisi dei debiti sovrani. In effetti non si capisce bene chi stia comprando a Wall Street, visto che, dai calcoli di BofA e DB, i fondi azionari avrebbero subito ulteriori deflussi per 40 miliardi a gennaio. Solo ricopertur­e (tecniche), si chiedono alcuni? Stanno tornando i piccoli investitor­i, azzardano altri, osservando come siano aumentati gli acquisti finanziati a debito (margin call)? Ad alimentare l’ottimismo sarebbero gli utili societari del 4° trimestre, che si stanno rivelando «migliori del previsto» o, meglio, migliori di quanto si prevedesse un mese fa per effetto del solito trucco di ribassare le aspettativ­e prima di una nuova campagna di trimestral­i. Ma le stime degli utili attesi per il 2019 si sono dimezzate in poco più di un mese e ora indicano una modesta crescita del 4 per cento.

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