Una Berlinale al femminile
In Concorso l’interessante ‘Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija’ di Teona Strugar Mitevska
In un festival dove quasi la metà dei film è diretta da donne, convince il sincero e coraggioso film della regista macedone
Piove a dirotto in una Berlino che chiude questo primo fine settimana con un bel pieno di pubblico in tutte le sale. La Berlinale è l’unico festival in cui non si riempiono solo le proiezioni con film da Oscar, anzi: per quelle è più facile trovare un biglietto che provare inutilmente a cercarlo per la Retrospettiva, quest’anno particolarmente attraente per il grande pubblico berlinese, trattando il cinema femminile tra Germania Ovest e Germania Est tra il 1968 e 1999, sotto il titolo: “Self-determined. Perspectives of women filmmakers”. E che le donne siano importanti in questo festival, più che mai sia successo in altre manifestazioni cinematografiche mondiali, è segnato dalla presenza di quasi la metà dei quattrocento film presentati firmati da registe. E che il cinema nel mondo abbisogni di autrici lo dimostra anche, in Concorso, ‘Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija’ (Dio esiste, il suo nome è Petrunya) della regista macedone Teona Strugar Mitevska, sicuramente il film più interessante visto finora qui in competizione. L’idea del film trabocca sincerità, necessità di dire, coraggio. Si perché ci vuole coraggio a porsi critici di fronte alla chiesa, alla polizia, alla magistratura, agli stessi media accusati di cavalcare la notizia sensazionale salvo poi piegare la testa al potere. Un potere che ha un volto maschile, spesso machista, un potere che non difende le donne, le usa. La storia è presto detta, la protagonista Petrunija (una straordinaria Zorica Nusheva) è laureata in storia, è disoccupata e vive con i genitori. Non è bella e all’ultimo colloquio di lavoro si era sentita rispondere: “Almeno fossi carina ti scoperei, tanto lavoro non c’è n’è neppure per le belle”! Uscita dal colloquio casualmente si trova in una processione, è il giorno dell’Epifania e si è soliti, per gli uomini del paese, fare un bagno fuori stagione per recuperare nel fiume una croce ritualmente lanciata dal parroco. Lei vestita si tuffa e recupera la croce scatenando un putiferio perché era un affare da uomini. Viene aggredita e arrestata: la seconda parte del film si svolge nel commissariato, dove solo un poliziotto prova simpatia per lei – non il vescovo, non i suoi compaesani, non una giornalista che in lei vede solo uno scoop e cerca di usare la sua scelta come femminista. Lei resiste a tutto, e alla fine camminerà a testa alta e sorridendo. Una commedia dolce/amara, ben girata, capace di diventare un racconto rohmerianamente morale.
La delusione Fatih Akin
Delude profondamente, sempre in Concorso, l’attesissimo ‘Der goldene Handschuh’ (The Golden Glove) del talentuoso e spesso vincente Fatih Akin che si impantana in una sanguinolenta vicenda senza riuscire a trasformare lo splatter in un film. Se la sua idea era, magari, di seguire le orme del ‘Dogman’ di Matteo Garrone, nel suo dire di un uomo diventato serial killer di vecchie prostitute resta in una blanda superficie. Il film, ampiamente venduto in tutto il mondo grazie alla reputazione del regista, è basato su un racconto di Heinz Strunke e ci por-
ta ad Amburgo, nel distretto di St. Pauli, dove in un locale malfamato, ritrovo di varia umanità bacata, c’è un manovale alcolizzato che si diverte a uccidere e a fare a pezzi donne finite. Il regista non riesce a uscire dalla sua storia provando a fare un verso al cinema di Fassbinder ma quello che gli manca, essendosi venduto al mercato, è quella compassione per l’umanità sofferente che è segno distintivo
del geniale regista morto a trentasette anni nel giugno del 1982. Di più, Fassbinder non ha mai voluto attori così sgangherati come quelli che appaiono in questo film. Non convince neppure ‘Der Boden Unter den Füssen’ (The Ground Beneath My Feet) di Marie Kreutzer, un film stanco, privo di idee, incapace di uscire dalla sua mediocre banalità televisiva, nel dire di una donna in carriera, che nasconde una sorella che si suicida, che va in crisi e che in conclusione mostra come le donne debbano stare in cucina e non organizzare convegni. Molto meglio il film ‘Out Stealing Horses’ di Hans Petter Moland ambientato tra paesaggi mozzafiato della Norvegia, con un bravo Stellan Skarsgård che si tuffa nei ricordi, trovandone anche non cercati.