Quando il cinema si guarda allo specchio
Si parla molto, in fila in attesa dei film di questa Berlinale, ma anche nei bar e nei ristoranti, dei problemi del clima, in questa città dove molti si muovono in bicicletta e con i mezzi pubblici. In fondo la vita di tutti i giorni è il cinema istantaneo che ognuno di noi ha a disposizione in un festival continuo. A questo ci ha fatto pensare, in selezione ufficiale ma fuori concorso, ‘Varda par Agnès’. La novantenne regista belga Agnès Varda – già premiata a Berlino nel 1965, anno in cui vinceva Jean-Luc Godard: i due erano molto amici, quando lui viveva con Anna Karina e lei con Jacques Demy – confeziona un delicato e malinconico testamento, in cui si lega indissolutamente al destino del cinema, mostrando depositi di film in pellicola ormai inutilizzati, di proiettori diventati da museo, in nome di un impalpabile digitale cui anche lei si è piegata negli ultimi vent’anni. Il film si divide in due parti distinte a segnare il suo “periodo analogico”, dal 1954 al 2000, anni in cui si afferma anche un’idea autoriale, quasi sacra: il regista è il film. Poi si concentra sugli anni dal 2000 al 2018, e su come anche il suo modo di narrare, ma soprattutto di guardare, sia cambiato con l’uso del digitale. Agnès Varda accompagna il pubblico in un viaggio attraverso il suo mondo di immagini, e di più lancia un messaggio chiaro ai giovani registi che spesso rinunciano a fare cinema per mancanza di soldi: il cinema oggi ha bisogno di chi ha le idee, di chi vuol veramente raccontare, e i soldi non servono, sono una giustificazione, basta un telefonino e avere da dire. Il film si chiude con la regista che va verso il mare, con la sabbia della spiaggia che si alza fino a farla scomparire: questo è Cinema. In concorso sono passati l’israeliano ‘Synonymes’ di Nadav Lapid, e ‘Elisa y Marcela’ della regista catalana Isabel Coixet. Nel primo il regista segue un uomo che lasciata Israele vuole trovare una nuova identità in un nuovo Paese, in una nuova lingua, in una nuova condizione di vita; il regista mette nel personaggio la propria esperienza autobiografica, ma questo personaggio diventa tutti i migranti del mondo, con le loro difficoltà nel nuovo paese, con la nuova gente, ma soprattutto con i propri compatrioti, magari decisi a non cambiare la propria maniera di vita. Più didascalico e prevedibile il film spagnolo prodotto dalla Netflix, un bianco e nero per raccontare una storia d’amore lesbico nella retriva Spagna d’inizio XX secolo: la narrazione è televisiva, le emozioni latitano.