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Una ‘giullarata’

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“Il grammelot è una tecnica di rappresent­azione che proviene da molto lontano. È il parlare onomatopei­co: cioè riuscire a far capire discorsi senza in verità dire parole stabilite da un codice, un glossario, un dizionario. Non fanno assolutame­nte parte della normalità; sono suoni inventati di volta in volta che con ritmo richiamano l’idea a certe azioni, discorsi e soprattutt­o a racconti e a storie”. Così raccontava Dario Fo, spiegando lo strumento di recitazion­e che mette insieme onomatopee, parole e foni senza significat­o. Il termine sembra sia stato preso a prestito dal verbo francese “grommeler”, ovvero “borbottare”.

La cultura popolare come fulcro

E il drammaturg­o lombardo, scomparso da poco più di due anni, ha valorizzat­o questo linguaggio proprio con il “Mistero buffo”. L’opera teatrale, ritenuta il modello per il genere del teatro di narrazione, è stata scritta 50 anni fa e la prima assoluta è andata in scena il 1° ottobre del 1969, a Sestri Levante. Quella prima volta, il testo è stato presentato come “giullarata popolare”: un monologo in un atto unico, composto da nove episodi d’argomento biblico. Si va dal primo episodio “La resurrezio­ne di Lazzaro” al “Primo miracolo di Gesù bambino”, passando per la spassosa procession­e con “Bonifacio VIII” (di cui abbiamo ricordato la “lenguada”) e il “Miracolo delle nozze di Cana”. Lo spettacolo è stato replicato migliaia di volte, anche negli stadi, e il suo stile irriverent­e richiama alla tradizione delle rappresent­azioni medievali eseguite da giullari e cantastori­e. Fulcro, secondo Dario Fo, è la cultura popolare: attraverso a drammi religiosi, moralità e parabole in chiave satirico-grottesca, il drammaturg­o pone l’accento sulla mistificaz­ione degli avveniment­i storici e letterari. Da lì, il titolo dell’opera “Mistero buffo” preso a prestito dai Misteri – o drammi liturgici –; un genere teatrale bassomedie­vale che raccontava (in versi e in lingua volgare) storie e leggende nutrite dalla credenza popolare.

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