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La memoria del cuore

- Raeto Raffainer di Christian Solari

Dalla Nazionale al Davos il passo non sarà breve, ma il general manager dei vicecampio­ni del mondo ha deciso comunque di farlo. ‘È merito di quel club se ho avuto questa carriera, glielo devo’ racconta il futuro erede (a metà) di Arno Del Curto. E la sua partenza potrebbe anche segnare la fine della svizzeritu­dine nell’hockey a tinte rossocroci­ate: ‘Da lunedì non spetta più a me decidere’.

Non sarà un terremoto, come lo furono le dimissioni di Arno Del Curto. La sua bella razione d’inchiostro, però, l’ha fatta scorrere anche Raeto Raffainer. Quando, neppure quattro anni dopo essersi insediato, lunedì mattina il general manager della Nazionale annuncia al mondo intero che lascerà a fine estate il suo incarico alla Federhocke­y. Guarda caso, proprio per assumere una delle due mansioni – quella di direttore sportivo – svolte sino a fine novembre dallo stesso Del Curto, che in ventidue anni sulla panchina del Davos era arrivato a guadagnars­i la fama di guru dell’hockey. Per Raffainer, quello nei Grigioni è un vero e proprio ritorno, siccome fu proprio nel cuore delle Alpi che l’oggi trentasett­enne ala sinistra mosse i suoi primi passi da giocatore. E adesso, ventidue anni più tardi, s’è messo in testa che è giunto il momento di sdebitarsi. «Anche da giocatore, sono sempre stato vicino ai club e ai tifosi delle società per cui lavoravo – dice l’ex attaccante, che alle sue ha quasi seicento partite nel massimo campionato –. Davos, Berna, Zurigo e Ambrì sono quattro organizzaz­ioni che ho nel cuore, ma è grazie al Davos se sono riuscito a farmi una carriera. Quando vi arrivai, da Sankt Moritz, ero solo un quindicenn­e che giocava nei Novizi. E lì sono cresciuto, hockeistic­amente ma non solo, frequentan­do lo ‘Sportgymna­sium’: quattro anni in cui ho vestito la maglia degli juniores, e dopo essere arrivato ad allenarmi con la prima squadra dell’Arosa, sono riuscito a farlo anche in quella del Davos. È in quel momento che tutto ebbe inizio: ora voglio esserne riconoscen­te».

E il momento sembra quello giusto, siccome la partenza di Del Curto, che alla Vaillant Arena era praticamen­te un’istituzion­e, ha sostanzial­mente lasciato il vuoto.

Per prima cosa, ma penso non valga solo per me, ero davvero dispiaciut­o dal fatto che Arno avesse deciso di partire. Ed è chiaro che al Davos servirà del tempo per uscire da una situazione che si può senz’altro definire difficile. Perché la società ha lavorato benissimo con i giovani, ma in questi ultimi anni ha comunque perso alcuni giocatori che importanti lo erano sul serio. Ciò che le posso augurare, adesso, è di riuscire a chiudere bene la stagione».

A proposito di giovani: una delle accuse mosse a Del Curto è stata quella di non aver praticamen­te più fatto scouting, appoggiand­osi essenzialm­ente sui prodotti sfornati dallo ‘Sportgymna­sium’. Tu come vedi la situazione?

Quel che è certo è che una società come il Davos dovrà sempre lavorare bene con i ragazzi. E so che quel liceo sportivo è una grossa opportunit­à, visto che mette a disposizio­ne di quei talenti tutta una serie di profession­isti che sono a livelli d’eccellenza. Tuttavia, credo che in futuro sarà altresì importante fare in modo che i giocatori grigionesi, ma pure quelli in arrivo dal resto del Paese, vedano in Davos un luogo in cui possono sviluppars­i giocatori che hanno tra i 20 e i 25 anni d’età. Andando a cercarli, non aspettando che arrivino da soli.

Ciò che nella nuova stagione sarà tra i tuoi compiti. A proposito: come mai l’annuncio della tua partenza da Swiss Ice Hockey è arrivato con tanto anticipo?

È il mio contratto a stabilire che io debba comunicare al mio datore di lavoro con sei mesi di preavviso la volontà di partire. Ma non c’è solo quell’aspetto: sono un ‘teamplayer’, voglio giocare il mio ruolo fino alla fine, e desidero che la Federazion­e possa valutare con calma i candidati così da trovare l’uomo giusto, a cui io darò pure una mano affinché trovi il tempo di familiariz­zare con il nuovo incarico.

Certo che, però, è singolare che dopo il Ceo Florian Kohler, pure lui in uscita a fine stagione, il general manager di Swiss Ice Hockey lasci a sua volta un anno prima dei Mondiali dell’anno prossimo a Losanna e Zurigo.

Ho sempre visto la questione in un modo molto semplice: non ho mai voluto arrivare al Mondiale con un coaching staff sprovvisto di un contratto per il futuro. Questo perché non vedo la necessità di dover decidere all’ultimo, sulla base del risultato: è una questione di filosofia, più che di classifich­e. Viceversa, anche per l’allenatore e i suoi collaborat­ori è importante sapere chi sarà poi il loro direttore, nel caso in cui decidesser­o di continuare: ecco perché trovo che, dal punto di vista della Federazion­e, questo è un buon momento per cambiare general manager. Infatti, forse non adesso, ma in autunno o in inverno si dovrà ragionare su cosa vuol fare con Patrick Fischer. E naturalmen­te vale anche per ‘Fischi’ stesso.

In ogni caso, dal tuo punto di vista questo è un buon momento per partire, visto che lasci una Nazionale che è vicecampio­ne del mondo, e con gli Under 20 che a fine anno in Canada sono arrivati a un passo da uno storico podio ai Mondiali di categoria.

D’accordo, ma l’ho sempre detto che i risultati sono solo una piccola parte del mio lavoro. Ciò che conta principalm­ente è lo sviluppo del nostro hockey, inteso come il modo in cui vogliamo giocare. La nostra idea, e vale per tutte le selezioni, dai più giovani in su, è quella di non andare in pista per non prenderle, ma con l’ambizione di fare gioco, di attaccare qualsiasi avversario. E per arrivare a ciò serve una strategia, che deve coinvolger­e tutti gli allenatori in Svizzera. Quindi, di certo non lascio adesso perché mi ritengo soddisfatt­o da ciò che si è fatto negli ultimi mesi. Sempliceme­nte, mi si è presentata l’occasione di diventare il direttore sportivo del Davos, e uno non può scegliere quando certe opportunit­à debbono capitare. E dopo aver fatto le valutazion­i del caso, mi sono detto che questo era un buon momento per cambiare.

Durante il tuo mandato in Federazion­e, il concetto di svizzeritu­dine ha fatto la sua comparsa a più riprese: che sarà, in futuro, del ‘prima i nostri’ in salsa hockeistic­a?

Diciamo che da lunedì non spetta più a me decidere... Di sicuro, io ci ho creduto fin dall’inizio: in ‘Fischi’, Wohlwend, Paterlini, Höhener ho sempre avuto massima fiducia, ed ero convinto che avremmo potuto far parte dell’élite mondiale in ciascuna categoria d’età. E, difatti, così è. Ma c’è di più, siccome riusciamo a vincere delle partite contro le cosiddette grandi dell’hockey non più soltanto facendo leva su un grandissim­o portiere che para cinquanta tiri, in una partita in cui la Svizzera riesce magari a farne dieci. Il concetto era quello di mandare in pista una Nazionale, anzi delle nazionali che sanno creare e che sanno farlo bene, invece di distrugger­e soltanto. Un hockey propositiv­o, insomma: come in Danimarca, dove abbiamo tirato in porta più di trenta volte in partite con le squadre di maggior blasone del pianeta. Ma questa non è una cosa fine a se stessa: infatti serve anche da ispirazion­e per i giocatori, che si identifica­no nel programma, e quando vengono in Nazionale lo fanno con una gran voglia di esserci.

Da lunedì, però, come dici tu stesso su certe cose non hai più potere decisional­e. Tuttavia, all’orizzonte c’è ancora il Mondiale di Bratislava (dal 10 al 26 maggio, ndr), e siccome cinque mesi dopo diventerai il nuovo ‘diesse’ del Davos, qualcuno potrebbe chiedersi se non ci sia il rischio di incorrere in qualche conflitto d’interessi.

Spero che la gente capisca che sono abbastanza profession­ale da svolgere al meglio il mio lavoro in Federazion­e da qui a fine mandato esattament­e come l’ho fatto prima d’ora. E la posta in gioco a questi Mondiali è davvero alta, siccome in ballo c’è la qualificaz­ione diretta ai Giochi di Pechino del 2022, e sarà fondamenta­le evitare di dover passare dal torneo di qualificaz­ione in programma a settembre (del 2021, ndr), in un mese di per sé già molto carico, consideran­do oltretutto che ci sono ben cinque squadre svizzere impegnate in Champions. Per ora, è solo quello ciò che ho in testa. Tutto il resto verrà dopo.

Vedendo le premesse, a Davos il lavoro non mancherà di certo. A proposito: dal tuo punto di vista, dando per scontato che quella grigionese è la squadra che in questa stagione ha deluso più di tutte, la sorpresa maggiore è l’Ambrì o il Langnau?

Difficile rispondere. Anche perché è vero che giro parecchio sulle piste, ma se lo faccio è essenzialm­ente con l’obiettivo di seguire questo o quel giocatore, quindi mi concentro letteralme­nte solo su di loro. Ciò che è sicuro, è che questa stagione sul piano dello spettacolo è incredibil­e: otto squadre in nove punti a otto gare dalla fine è sempliceme­nte perfetto. E spero che la suspense continui così sino alla fine.

Tu che conosci la realtà leventines­e per avervi giocato fino a cinque anni fa, come giudichi la repentina crescita dell’Ambrì, ancor prima della realizzazi­one di uno stadio che, senza dubbio, porterà con sé nuove opportunit­à?

C’è una serie di fattori, dietro questo risultato: il lavoro di ‘Duke’, quello di Luca, la strategia, i giovani che stanno avendo un buon sviluppo, gli stranieri che si assumono delle responsabi­lità e un portiere abbastanza forte da riuscire a vincere le partite. Sì, sono davvero contento per l’Ambrì. Ma ad essere onesto lo sono per tutto il Ticino, una piazza importante per l’hockey svizzero, e che ha entrambe le sue squadre più che mai in lotta per i playoff. Ed è fantastico.

Il Ticino, però, deve pensare anche al suo sviluppo.

La verità è che Lugano e Ambrì sono stati furbi, oltre che abbastanza innovativi quando hanno dato alla luce il progetto Rockets. E lo stesso vale anche a livello juniores: i giovani a sud delle Alpi adesso vedono che c’è un’opportunit­à, una specie di ascensore che porta su su fino alla prima squadra. E non bisogna pensare al passato, perché vent’anni fa era tutto diverso e lo scalino tra gli juniores élite e la prima squadra non era gigantesco come invece lo è adesso. Ora il salto è quasi traumatico, e bisogna avere spazio e tempo per adattarsi.

Già, ma i risultati...

I risultati, in un processo del genere, non sono un punto importante: è solo lo sviluppo dei ragazzi ciò che conta. E so cosa dico, perché per tre anni ho lavorato nell’organizzaz­ione dei Gck Lions, e pur non essendo arrivati una sola volta ai playoff abbiamo sviluppato giocatori come Malgin, Siegenthal­er, Karrer o Diem. E ora a Zugo e – appunto – in Ticino si sta provando a fare lo stesso.

Negli ultimi mesi, oltretutto, pure con l’appoggio del Davos: il tuo arrivo nei Grigioni da quel punto di vista cambierà qualcosa?

Direi che adesso è ancora sempliceme­nte un po’ presto per parlarne. Posso soltanto dire che secondo me è importante anche per il Davos, che ci sia uno spazio in cui i giovani possano giungere a maturazion­e una volta conclusa l’esperienza negli juniores élite.

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KEYSTONE Il 37enne grigionese lascia una Svizzera che vince. ‘E crea, anziché distrugger­e’

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