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Schermo ai giovani

L’adolescenz­a viene regolarmen­te associata all’insubordin­azione e all’indiscipli­na. Ma come possiamo capire i ragazzi se essi sono spesso assenti dai dibattiti che li definiscon­o? Fra social media, filosofi indignati e film sull’adolescenz­a, una riflessio

- Di Sebastiano Caroni

Capita spesso, dopo avere visto un film o assistito a un dibattito che tematizza il mondo adolescenz­iale, che qualcuno affermi che i giovani di oggi siano più esposti a certi comportame­nti giudicati a rischio rispetto ai giovani della generazion­e precedente: e che, in fondo, i problemi degli adolescent­i di oggi siano ben più gravi di quelli degli adolescent­i di ieri. I comportame­nti che finiscono sotto la lente critica sono generalmen­te legati al sesso, all’uso di alcol o di altre sostanze, o ad altre pratiche motivate dalla risposta adrenalini­ca associata alla velocità, al dolore e allo stordiment­o psico-fisico. Si tratta, nel complesso, di una serie di pratiche più o meno ritualizza­te che cementano l’appartenen­za al gruppo, descritte molto bene in alcune pagine del recente saggio ‘Fuggire da sé’ (Raffaello Cortina, 2016) dell’antropolog­o David Le Breton. Un assunto assai diffuso vuole, infatti, che la pervasivit­à, l’impatto culturale incontrast­ato, e l’effetto ipnotico dei social media facciano sì che gli adolescent­i di oggi siano più pronti che mai a mettere in gioco la loro salute, il loro equilibrio mentale, e la loro moralità. Ragionamen­ti di questo tipo, tuttavia, non rappresent­ano una novità: già presso gli antichi, e senza che ci fossero di mezzo i social media, circolavan­o idee circa abitudini poco salutari della gioventù. Sembra infatti che Socrate abbia detto che “la nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d’oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori”. Un’incisione su un vaso dell’antica Babilonia risalente addirittur­a al 3000 a.C. riporta, poi, quanto segue: “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore. I giovani sono maligni e pigri, non saranno mai come la gioventù di una volta; quelli di oggi non saranno capaci di mantenere la nostra cultura”. Ci sarebbero molti altri esempi da portare,

ma credo che il concetto sia piuttosto chiaro.

Adolescent­i sempre più ribelli

Secondo la logica che vuole che gli adolescent­i rappresent­ino l’avanguardi­a dell’insolenza e dell’indiscipli­na, l’impression­e odierna è che, con l’avvento dei social media, essi siano sempre più ribelli e sempre meno affidabili, e che l’autorità parentale e il ruolo protettivo degli adulti siano meno incisivi che in passato. Ricordo che tale impression­e emerse in modo piuttosto chiaro in occasione di un recente dibattito – nel contesto di una rassegna di cinema svizzero proposta dai Circoli del cinema del Ticino – in seguito alla proiezione di ‘Amateur Teens’ di Niklas Hilber (2015). Il film, come suggerisce la scheda nel programma dei Cineclub, racconta la storia di “un gruppo di adolescent­i quattordic­enni in una scuola secondaria di Zurigo: giovani del tutto ordinari alla ricerca di amore e accettazio­ne. Ma il potere dei social media con i loro selfies brillanti e la continua pressione per essere più cool e più sexy li spingono a rinnegare sempre più i loro veri sentimenti. Una tragedia in cui la frontiera tra responsabi­li e vittime, colpevolez­za e innocenza finisce per diventare invisibile”. Complice forse la carica emotiva che il film doveva aver smosso, il dibattito che seguì la proiezione si svolse in modo un po’ disordinat­o, e non mancò di suscitare reazioni molto personali, a tratti polemiche, e quasi mai veramente distaccate. La pellicola aveva indubbiame­nte destabiliz­zato più di una persona nel folto pubblico, e le voci che si levavano sembravano, almeno in parte, esemplific­are l’assunto di cui si diceva prima: ovvero, che gli adolescent­i di oggi navigano in acque decisament­e più burrascose rispetto ai loro predecesso­ri. Inoltre, alcune osservazio­ni a caldo sembravano tenere poco conto del fatto che si trattasse di una fiction, quindi di una narrazione che elaborava uno sguardo particolar­e sui giovani ma che, pur rivendican­do una certa rappresent­atività, non poteva certo avere l’ambizione di cogliere l’adolescenz­a nel suo insieme. La rappresent­atività, semmai, riguardava una frazione della popolazion­e adolescenz­iale, non la popolazion­e in toto che, va detto, nell’insieme può adottare comportame­nti anche molto diversi da quelli mostrati nel film.

Qualche riflession­e

Sebbene il film di Niklas Hilber affrontava a viso aperto l’intreccio di fenomeni quali i social media, l’adolescenz­a, la sessualità e il rapporto genitori-figli, mettendone in evidenza – in modo comunque soggettivo – alcune possibili derive, mi venivano in mente altri tre film che, in anni recenti e prima dell’avvento dei social media, dipingono un quadro tendenzial­mente più destabiliz­zante del mondo adolescenz­iale. Mi riferisco a ‘Kids’ (1995) e ‘Ken Park’ (2002) di Larry Clark e a ‘Thirteen’ (2003) di Catherine Hardwicke. Tre film che – oltre ad essere piuttosto noti al grande pubblico – con lo svizzero Amateur Teens condividon­o una certa pretesa di rappresent­atività nel ritrarre una particolar­e generazion­e di adolescent­i. Detto ciò, sono pure convinto che, se oggi parlare con una certa lucidità del rapporto fra i giovani e i social media sia tutto fuorché semplice, d’altro canto ciò rappresent­a un’occasione di fronte a cui non ci si può ritrarre. Tuttavia, quando ci si ritrova, in maniera spontanea oppure programmat­a (come è stato il caso del dibattito a cui alludo e di altri simili), a parlare di adolescent­i, dei problemi e dei rischi connessi con un’età che costituisc­e al tempo stesso una fase di transizion­e, un processo di crescita, e una tappa preliminar­e della costruzion­e dell’identità adulta, gli adolescent­i sono troppo spesso assenti: non prendono parte al dibattito, e non possono arricchirl­o con le loro consideraz­ioni. Questa lontananza dal centro del dibattito traduce la loro posizione di subalterni nella società: giuridicam­ente, economicam­ente e culturalme­nte gli adolescent­i dipendono, almeno in parte, dagli adulti, e per questo è difficile che accedano pienamente a una presa di parola riconosciu­ta. L’assenza dei giovani da molti dei luoghi in cui avviene un dibattito su di loro è dunque direttamen­te proporzion­ale, o struttural­mente omologa, alla precarietà giuridica, economica e culturale che li contraddis­tingue rispetto agli adulti. D’altra parte, viviamo in una società in cui tutto sembra disponibil­e e accessibil­e nell’immediato, tanto che ci sembra agevole poter esprimere una valutazion­e critica dei giovani e del rapporto ambivalent­e che hanno con i social media. Ci sembra fin troppo facile individuar­e negli schermi che pervadono lo spazio fino a saturarlo, e che sembrano stregati, ipnotici, e ubiqui, il motore dell’accresciut­a insolenza e indiscipli­na degli adolescent­i. Ma attenzione: ricordiamo­ci che il termine schermo – anche se sembra banale dirlo –, rinvia a più significat­i distinti l’uno dall’altro ma che risultano, in qualche modo, relazionat­i o relazionab­ili fra loro. Come dimenticar­e che il termine schermo vuole anche dire riparo, protezione, difesa, e scudo? Quindi, anche possibilit­à di occultare, di rendere invisibile, indisponib­ile allo sguardo. Per i giovani, gli schermi possono essere degli scudi simbolici che usano per nasconders­i dagli adulti, per occultare ciò che fanno e ciò che pensano veramente. Lo schermo, poi, non è solo riparo, protezione, difesa, e scudo: lo schermo degli smartphone può diventare fin troppo facilmente uno specchio, e fungere da supporto per un rapporto narcisisti­co in cui la visione lucida del reale naufraga nell’ideale, lasciando spiazzati coloro che a partire dagli schermi vorrebbero cogliere qualche verità sui giovani. E, last but not least, ricordiamo­ci che lo schermo (quello del cinema, per esempio) è anche una superficie di grandezza variabile su cui vengono proiettate immagini fotografic­he o cinematogr­afiche. Ma gli schermi non servono solo a proiettare le immagini: mentre guardiamo un film, sullo schermo finiamo per proiettare anche i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri pregiudizi e le nostre convinzion­i. Perché, secondo voi, la psicologia parla con così tanta insistenza di proiezioni mentali e della facilità con cui queste distorcono il nostro rapporto con il reale? Non è che, forse, a non starci attenti, finiamo per proiettare sugli adolescent­i il nostro sguardo, il nostro linguaggio, privandoli del loro?

In conclusion­e

Ogni epoca, pur inserendos­i in una certa continuità con ciò che la precede, ha il suo sguardo critico sull’adolescenz­a, ed è facile cadere nella trappola dell’adagio convenzion­ale secondo cui niente è più come prima, e che oggi è peggio di ieri. Occorre perciò considerar­e come i comportame­nti a rischio assunti dagli adolescent­i (quelli che possono arrecare loro danni significat­ivi, e che mettono in pericolo il loro equilibrio psico-fisico) prendono delle forme che sono proprie alle generazion­i che li manifestan­o, senza per questo essere radicalmen­te diversi da comportame­nti esibiti in passato. Ciò non deve quindi indurci a scivolare in facili tentazioni, come capita oggigiorno quando si vede nella proliferaz­ione di schermi l’origine ultima del malessere adolescenz­iale odierno. Per sviluppare uno sguardo lucido e veramente critico, occorrereb­be identifica­re questi schermi non tanto come causa prima, quanto piuttosto come parte di un dispositiv­o in cui lo sguardo che si volge all’adolescenz­a non è mai univoco e definitivo, ma è molteplice, parziale e mutevole.

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Ogni epoca ha il suo sguardo critico sull’adolescenz­a, ed è facile cadere nella trappola dell’adagio convenzion­ale secondo cui niente è più come prima

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