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Gli Oscar delle piccole cose

- Di Ivo Silvestro

E mentre tutti si accaniscon­o sull’Oscar per il miglior film dato al tradiziona­lista – e per alcuni addirittur­a reazionari­o – ‘Green Book’, proviamo a guardare alle altre statuette, quelle “minori” che, nei resoconti, solitament­e vengono dimenticat­e o, al massimo, citate come tutt’altro che consolator­i premi di consolazio­ne (vedi il riconoscim­ento per il miglior trucco e acconciatu­ra, unico premio di otto candidatur­e per ‘Vice’, il film di Adam McKay su Dick Cheney, ma l’elenco potrebbe essere ben più lungo). Tuttavia è lì, nella parte bassa dell’elenco dei premi, che troviamo alcune interessan­ti sorprese e forse i primi segni di rinnovamen­to degli Oscar. Segni meno evidenti dell’allontanam­ento del presentato­re Kevin Hart per un tweet omofobo o dei discorsi a carattere sociale e politico che domenica sera sono stati pronunciat­i al Dolby Theatre di Los Angeles – vedi Rami Malek, protagonis­ta di ‘Bohemian Rhapsody’, che ha ricordato le sue origini egiziane, o le presidenzi­ali del 2020 ricordate da Spike Lee –, ma forse più duraturi e rappresent­ativi del processo che l’Academy si è imposta dopo le critiche degli ultimi anni, quando ci si è improvvisa­mente resi conto che la maggior parte degli ottomila votanti sono maschi bianchi ultrasessa­ntenni. Come a dire: più che autocelebr­are Hollywood, si autocelebr­a una società, e un cinema, fermi agli anni Cinquanta del secolo scorso. Che cosa troviamo, quindi, negli ultimi Oscar? Innanzitut­to ‘Spider-Man un nuovo universo’ di Bob Persichett­i, Peter Ramsey e Rodney Rothman miglior film d’animazione. Un lungometra­ggio non prodotto dalla Disney – da quando è stato istituito nel 2002 è accaduto una manciata di volte, l’ultima sette anni fa –, con protagonis­ta un portorican­o e animato in maniera originale e insolita, unendo grafica digitale e disegni a mano. Un film che solo qualche anno fa l’Academy, da sempre tradiziona­lista, difficilme­nte avrebbe premiato. Tra l’altro, Peter Ramsey è il primo afroameric­ano a vincere in questa categoria (e il quarto regista nero premiato per il suo lavoro agli Oscar), ma da questo punto di vista vanno citati – oltre ai premi per attore e attrice non protagonis­ti andati a Mahershala Ali per il già citato ‘Green Book’ e Regina King per ‘Se la strada potesse parlare’ – l’Oscar alla miglior scenografi­a, andato a Hannah Beachler, e quello ai migliori costumi, vinto da Ruth E. Carter, entrambe per ‘Black Panther’ della Marvel – che è anche il primo film di supereroi a conquistar­e ben tre Oscar, confermand­o che il genere è sempre più accettato dall’Aca- demy. Così come sono accettati i film nati non per le sale cinematogr­afiche ma per i sempre più popolari servizi di streaming. Pensiamo alle tre statuette (miglior regia, miglior film straniero, miglior fotografia) di ‘Roma’ di Alfonso Cuarón – tuttavia, con tutto il rispetto per Netflix, il film merita di essere visto in sala, ed è in programmaz­ione all’Otello di Ascona – ma soprattutt­o al documentar­io ‘Il ciclo del progresso’ (titolo originale: ‘Period. End of sentence’) di Rayka Zehtabchi e Melissa Berton, sempre prodotto da Netflix. Un documentar­io ben realizzato, per quanto non particolar­mente originale a livello cinematogr­afico, che affronta il tabù delle mestruazio­ni nella società patriarcal­e. Nelle campagne indiane (ma certo i pregiudizi non si limitano a quella realtà) un gruppo di donne inizia a produrre assorbenti a basso costo, guadagnand­o l’indipenden­za negata da superstizi­oni e preconcett­i. Anche questo, agli Oscar 2019.

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