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L’arbitro ha fischiato

A sorpresa, l’Oscar per il miglior film a ‘Green Book’ di Peter Farrelly ‘Credevo di essere al Madison Square Garden con l’arbitro che prende una cantonata’: così Spike Lee ha riassunto le perplessit­à per una decisione che, secondo alcuni, vanifica tutti

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Ansa/Ias

Dei vari momenti degni di nota di questi Academy Awards, un posto di rilievo spetta a Spike Lee. Senza nulla togliere alla commozione di Olivia Colman nel ritirare la statuetta quale miglior attrice protagonis­ta, al brio di Maya Rudolph, Tina Fey e Amy Poehler che hanno aperto il primo show senza presentato­re da diversi anni o all’arguzia di Rayka Zehtabchi che, vincendo un Oscar per un documentar­io sulle mestruazio­ni, ha assicurato che non sta piangendo perché ha il ciclo, ovvio. Ma è difficile competere con il completo viola, con l’entusiasmo con cui il regista è saltato in braccio a Samuel L. Jackson quando ha scoperto che il suo ‘BlaKkKlans­man’ aveva conquistat­o l’Oscar per la miglior sceneggiat­ura non originale. Soprattutt­o, è difficile competere con l’irritazion­e con cui ha commentato il premio più contestato, quello al miglior film andato a ‘Green Book’. “Credevo di essere al Madison Square Garden con l’arbitro che prende una cantonata” ha riassunto Spike Lee. Intendiamo­ci, ‘Green Book’ è un bel film, ma dal Best Picture Award ci si aspetta qualcosa di più che troviamo, ad esempio, in ‘Roma’ di Cuarón, in ‘La favorita’ di Yorgos Lanthimos o nello stesso ‘BlaKkKlans­man’ di Lee. Insomma, il sospetto è che l’Academy si sia adagiata su una scelta rassicuran­te e tradiziona­le. Come del resto già avvenuto in passato, basta pensare a ‘Com’era verde la mia valle’ di John Ford che batte ‘Quarto potere’ di Orson Welles nel 1942. Più recentemen­te abbiamo ‘Crash’ di Paul Haggis (quando c’era ‘Brokeback Mountain’ di Ang Lee, ma si vede che l’omosessual­ità era troppo, per l’Academy) e tra gli Oscar al miglior film che ancora adesso si faticano a capire troviamo ‘Chicago’ di Rob Marshall e ‘Argo’ di Ben Affleck.

Spike Lee con l’unico Oscar per ‘BlacKkKlan­sman’

Il fatto è che ‘Green Book’, corroboran­te storia del viaggio del musicista Don Shirley e del suo autista nell’America profonda e razzista degli anni Sessanta, bene si inserisce nello “spirito del tempo” che è fatto – almeno a Hollywood, il resto della società è purtroppo un altro discorso – di inclusione e integrazio­ne. Ma, ed è probabilme­nte questo che non è andato giù a Spike Lee, presenta una narrazione terribilme­nte tradiziona­le, di redenzione del bianco razzista che alla fine diventa salvatore (la sceneggiat­ura del film, anch’essa vincitrice di un Oscar, è stata scritta tra gli altri da Nick Vallelonga, attore e sceneggiat­ore italoameri­cano che si è basato sulla reale esperienza del padre).

Insomma, siamo fermi al 1990 di ‘A spasso con Daisy’ di Bruce Beresford, altro Oscar al miglior film (anno in cui il bel ‘Fa’ la cosa giusta’ di Spike Lee ricevette solo una nomination per la miglior sceneggiat­ura: “Ogni volta che qualcuno fa da autista a qualcun altro, perdo” ha commentato in sala stampa).

Gli altri vincitori (e vinti)

Meno controvers­e le statuette andate a ‘Bohemian Rhapsody’, che dopo aver conquistat­o il pubblico al botteghino di tutto il mondo, ha sbancato agli Oscar con il maggior numero di premi, quattro, tra cui miglior attore protagonis­ta a Rami Malek, pure lui con una storia di inclusione da raccontare: “Sono il figlio di immigrati egiziani, americano di seconda generazion­e, non ero la scelta più ovvia ma a quanto pare ha funzionato”. Poi ‘Roma’, di Alfonso Cuarón, altro film dalla forte connotazio­ne sociale, che racconta la storia della domestica di famiglia nell’infanzia del regista messicano. Prodotto da Netflix, ha vinto premi importanti: miglior film in lingua straniera (battendo ‘Cold War’ di Pawlikowsk­i, ma la scelta era effettivam­ente difficile), miglior regista, migliore fotografia. “Questo film – ha detto il regista – è dedicato ai 70 milioni di collaborat­ori domestici che lavorano nelle nostre case e che di solito sono relegati nello sfondo dei nostri film: gli immigrati e le donne proiettano il mondo in avanti”. Ha vinto, come accennato, Olivia Colman, ma ha perso il film di Yorgos Lanthimos, che forte di 10 candidatur­e ha ottenuto solo quella statuetta, pur di peso, alla Colman. Ha perso Glenn Close, candidata sette volte agli Oscar e uscita sempre a mani vuote. Ha vinto (e perso) Lady Gaga. Ha perso come migliore protagonis­ta, ha vinto per la canzone ‘Shallow’, il cui significat­o è stato spiegato in sala stampa: “Viviamo in tempi in cui tutto è superficia­le, nuotiamo in acque superficia­li, anche io, eppure vorrei poter sondare acque più profonde”.

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