Il clima dei migranti
Intervista a Marco Armiero, direttore dell’Environmental Humanities Laboratory di Stoccolma
‘Dobbiamo smetterla di pensare che l’apocalisse sarà nel futuro e convincerci che l’apocalisse c’è già stata e capire come sopravvivere’, ci spiega Armiero, ospite della tavola rotonda che si terrà lunedì al Monte Verità di Ascona sul complesso nesso tra mutamenti climatici, migrazioni e sicurezza
Sono tre temi al centro del dibattito pubblico, a livello locale e nazionale: migrazioni, cambiamento climatico, sicurezza. Il che vuole dire che sono temi su cui è difficile avviare una discussione non offuscata da ideologie e preconcetti: un po’ di chiarezza, e di dati, dovrebbe arrivare dal convegno che si terrà nei prossimi giorni al Monte Verità di Ascona nell’ambito dei Congressi Stefano Franscini. Con, lunedì alle 20.30, un evento pubblico: la tavola rotonda “Cambi Climatici, Migrazione e Sicurezza”, durante la quale saranno anche presentati i risultati del progetto europeo Clisel (Sicurezza ambientale con le autorità locali). All’incontro parteciperanno Giovanni Bettini dell’Università di Lancaster, Paolo Cugini, sindaco di Gassino, Cristian Uez, sindaco di Calceranica, Cinzia Tartarotti, vicesindaca di Calceranica e Marco Armiero, direttore dell’Environmental Humanities Laboratory di Stoccolma, al quale abbiamo posto alcune domande.
Cambiamenti climatici e migrazioni: qual è il rapporto? Gli attuali flussi migratori sono riconducibili al riscaldamento globale?
Un punto su cui stiamo insistendo, da quando abbiamo avviato questo progetto europeo Clisel, è che effettivamente rigettiamo un rapporto diretto di causa-effetto tra cambiamento climatico e migrazione. Sarebbe un ragionamento determinista, mentre quello che proviamo a dire è che il cambiamento climatico, e più in generale i cambiamenti ambientali, sono una delle concause che stanno dentro i grandi processi migratori contemporanei.
Però è una lettura che si sente spesso.
In Europa si è detto che la guerra in Siria, con tutto quello che ha significato in termini di migrazioni, sarebbe collegata al cambiamento climatico. Ma è una lettura troppo semplice, che noi non condividiamo, tanto più che dalle ricerche fatte sembrerebbe che anche dove effettivamente vi sono migrazioni legate a cambiamenti ambientali, come siccità, quelle che hanno luogo sono migrazioni regionali. Ma forse risulta più chiaro con un altro esempio, che farò anche alla conferenza: il Dust Bowl.
Sarebbe?
È un grande disastro climatico-ambientale accaduto negli anni Trenta negli Stati Uniti. Si tratta di grandi tempeste di sabbia che devastano le grandi pianure – in concomitanza con la Grande crisi. Una delle tante conseguenze del Dust Bowl sono le 300mila, e forse anche di più, persone che lasciano le pianure per andare in California: il fenomeno è così importante che lo troviamo nella cultura popolare: il cantautore Woody Guthrie ci fa un album, le ‘Dust Bowl Ballads’, Steinbeck ci scrive un romanzo, ‘Furore’, che poi diventa anche un film. Questi migranti venivano chiamati Okies, dispregiativo da ‘Oklahoma’, un po’ come i ‘marocchini’ in Italia.
Dei rifugiati climatici?
Possiamo leggere questa migrazione come conseguenza di cambiamenti ambientali: queste persone scappavano dalle tempesta di sabbia. Ma la storia ambientale ci insegna qualcosa di diverso. Perché il Dust Bowl è sì un fenomeno naturale, prodotto da sabbia e vento. Ma è anche un fenomeno sociale ed economico. Donald Worster, autore di un libro del 1979 intitolato proprio ‘Dust Bowl’, spiega che il fenomeno è generato dall’agricoltura capitalistica che arriva nelle grandi pianure, dissoda e trasforma la prateria, portando anche a un grandissimo indebitamento degli agricoltori. Per cui alla domanda se questi Okies siano rifugiati climatici o no, in realtà non possiamo rispondere: scappano sì dal clima, ma scappano anche dalle banche. Molto spesso ambiente e clima sono mischiati con numerosi altri fenomeni ed è difficile distinguere chi scappa dalla fame, chi dalla guerra, chi dal clima…
Abbiamo citato l’agricoltura capitalista come concausa del Dust Bowl: non è solo l’ambiente a influire sulla società, ma anche il contrario – come peraltro dimostra l’origine umana del riscaldamento globale. Le migrazioni hanno conseguenze climatiche?
Qui, prima di tutto, va evidenziata la differenza tra cambiamenti climatici e cambiamenti ambientali. I cambiamenti climatici avvengono certamente anche a livello locale, ma in genere ci riferiamo a eventi su scala globale. Secondo alcuni viviamo in una nuova era geologia, l’antropocene, in cui è l’essere umano a determinare i cicli bio e geochimici del pianeta. Perché se da sempre l’umanità ha trasformato il territorio, la novità dell’antropocene è che questi cambiamenti avvengono a livello globale. Ora, che le migrazioni impongano cambiamenti ambientali è certo. E anzi, sempre a proposito dell’antropocene, c’è un dibattito tra gli studiosi su quando abbia inizio questa nuova era. Dibattito che forse interessa in pochi, ma può essere rilevante perché c’è chi dice che l’antropocene inizi con la rivoluzione industriale, chi con l’atomica… ma c’è chi sostiene che inizi con la conquista (non scoperta, come spesso ancora si dice a scuola) dell’America. Perché i cambiamenti sono stati importantissimi, a cominciare dal genocidio di milioni di indigeni, poi dissodamenti, introduzione di nuove specie. Tuttavia, occorre molta attenzione, nel dire che le migrazioni sono causa dei cambiamenti climatici. È un argomento che negli Stati Uniti ha una certa popolarità ed è stato chiamato “greening of hate”, “inverdimento dell’odio”, in pratica prese di posizione anti immigrati che utilizzano un linguaggio ambientalista.
Un vestito verde per vecchi pregiudizi.
Sono argomenti che vengono da lontano. Negli anni Settanta Garrett Hardin scriveva che lasciare morire le persone nei Paesi in via di sviluppo è la cosa più umana che possiamo fare. L’etica della scialuppa di salvataggio, l’aveva chiamata: se una scialuppa può contenere dieci persone, provare a salvarne trenta porta alla morte di tutti.
È una metafora che qui in Svizzera conosciamo bene: ‘La barca è piena’ era la politica ufficiale durante la Seconda guerra mondiale.
Una metafora che non posso sottoscrivere. Da storico penso occorra interrogarsi su come mai qualcuno sta fuori dalla barca: non è che chi si trova all’asciutto e al sicuro sia più bravo o più meritevole, ma occorre guardare al passato, e penso ad esempio al passato coloniale e imperiale. Ma non solo: i migranti che arrivano spesso portano con loro delle culture potenzialmente utili per un mondo più sostenibile. In Australia, territorio molto arido, c’è chi ha argomentato che proprio l’arrivo di immigrati potrebbe insegnare, alla ‘White Australia’, un uso parsimonioso dell’acqua. Ed esempi simili si possono fare per altre realtà del Nord del mondo.
Questo ci porta al rapporto tra immigrati e popolazione locale. E al terzo argomento della tavola rotonda di lunedì: la sicurezza.
“Immigrazione e sicurezza” è il binomio di questo terzo millennio, basta guardare alle campagne elettorali in giro per il mondo, da Trump alle destre europee, da Orbán in Ungheria a Salvini in Italia. Volendola dire in maniera neutrale, sul nesso tra immigrazione e sicurezza si insite molto. Ma la domanda di sicurezza che c’è può essere interpretata in molti modi. Una cosa che ci ha colpito, durante il lavoro per il progetto Clisel, è che molto spesso il dibattito politico è orientato all’ordine pubblico, alla paura di essere rapinati eccetera – ma la domanda di sicurezza che emerge dal basso riguarda altro, avere un lavoro sicuro, avere un futuro sicuro. Un’accezione più ampia e, volendo, anche meno esclusiva e più inclusiva. La tesi del multiculturalismo, che sia chiaro sottoscrivo, mi sembra un po’ di retroguardia: alla domanda di sicurezza dei cittadini non credo si possa rispondere invitando la gente ad apprezzare il multiculturalismo, ma fornendo più servizi. Le nostre periferie, dove spesso si concentrano gli stranieri, ha certamente bisogno si apprezzare la ricchezza del multiculturalismo, ma ha anche bisogno di un po’ più di ricchezza in generale: case, ospedali, lavoro.
L’offerta politica, in genere, è però un’altra: più polizia, meno stranieri, o quantomeno meno diritti agli stranieri…
Le politiche populiste promettono un’identità facile ma che dà poco in cambio. Ti senti italiano – o francese, o svizzero, o ungherese… – ma non per questo hai più diritti, più opportunità: è semplicemente una identità contro. Il tema della sicurezza nel suo legame con la migrazione andrebbe declinato a tutto tondo, ascoltando le persone, senza imporre una determinata narrazione.
Il che potrebbe avvenire a livello locale, cui fa riferimento il progetto Clisel…
Sicuramente l’elemento locale è importante per questa dimensione di ascolto, di provare a capire che cosa la gente intende quando parla di sicurezza. Senza essere ingenui: chiaro che l’opinione pubblica può essere influenzata, anche in maniera radicale, e con campagne martellanti si possono ottenere ampi consensi, come il passato ha mostrato in maniera anche tragica. Tornando alle autorità locali: negli Stati Uniti se si prende la mappa delle cosiddette “città santuario” – quelle che si sono opposte alle norme anti immigrazione di Trump, ad esempio rifiutando di fornire dati alle autorità federali – e la si sovrappone alla mappa delle città che hanno deciso di rispettare l’accordo sul clima di Parigi, si vede che in buona parte coincidono. Le città che proteggono gli esseri umani sono anche quelle che proteggono l’ambiente. Spesso si è detto che le città sono parte del problema, perché consumano molta energia, si inseriscono in dinamiche geopolitiche complesse. Ma è anche vero che, come si diceva in Europa all’inizio dell’età moderna, l’aria delle città rende liberi. Nel laboratorio che dirigo a Stoccolma gestiamo anche un altro progetto di ricerca internazionale: ‘Occupy Climate Change’. Abbiamo preso cinque città – Rio de Janeiro, New York, Stoccolma, Napoli e Istanbul – per vedere come sia la società civile, sia le amministrazioni locali si pongono, oggi, il problema del cambiamento climatico e stanno pensando da una parte a come mitigarlo, dall’altra a come adattarci. Questa è la grande sfida, anche per quanto riguarda le migrazioni: si pensa sempre al futuro, abbiamo sempre queste apocalissi prossime venture. Ma come storico voglio dire che dobbiamo smetterla di pensare che l’apocalisse sarà nel futuro e convincerci che l’apocalisse c’è già stata, e si tratta di capire come sopravvivere.