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E allora il Pd?

- Di Lorenzo Erroi

“Quando si sente minacciato (cosa che avviene piuttosto spesso) l’opossum ha una tecnica di difesa tutta particolar­e: si sdraia su un fianco a bocca aperta, lingua penzoloni e occhi girati all’insù. Poi inizia a rantolare. L’eventuale predatore, convinto che la ‘vittima’ sia gravemente ammalata (o peggio avvelenata), spesso si allontana”. Viene dalla nostra pagina Wwf la migliore descrizion­e dell’ultimo anno di centrosini­stra italiano: periodo trascorso nell’agonizzant­e attesa di un nuovo leader, mentre il predatore gialloverd­e occupava tutti gli spazi istituzion­ali e politici.

Un anno dopo, l’opossum pare rialzarsi: 250mila persone scendono in piazza a Milano contro il razzismo salviniano, circa un milione e 600mila elettori animano le primarie del Pd. Segno che forse, per una forza progressis­ta, un po’ di spazio c’è ancora.

Vince Nicola Zingaretti: uomo d’ordine di Botteghe Oscure, Mr. Wolf abituato per sua stessa ammissione a “spalare merda” (sic) lontano dai riflettori, già capace di vincere in Lazio mentre il partito affondava. Inutile girarci attorno: con lui si chiude la stagione renziana, il Pd dell’uomo forte e delle rottamazio­ni. Torna una sinistra forse un po’ più sinistra, ma soprattutt­o più allineata alle tradizioni di quell’Ulivo che cercava alleanze ampie e dialogo coi corpi intermedi.

Non è ancora una vittoria. Non è nemmeno un pareggio: l’ago dei consensi pende ancora nettamente verso il governo, nonostante un’Italia mai così fragile, povera e isolata; evidenteme­nte la strategia di incolpare gli altri per le proprie incompeten­ze – “e allora il Pd?”, ma anche Bruxelles e i migranti – funziona ancora. Per ora i Dem hanno solo “girato la clessidra” per guadagnare tempo, come nota Bucchi su ‘Repubblica’.

Zingaretti sa che da segretario lo aspetta una vita da mediano: la posizione logorata del Pd, le divisioni intestine e il suo stesso profilo non gli permettono di imporre una leadership volitiva in stile Renzi. Né si direbbe che la cosa gli interessi. Probabilme­nte ha capito che ci vorranno anni per rimettere in forma il corpaccion­e di un partito indebolito dai personalis­mi e dalla perdita di una base.

Per riconquist­are consensi, una tattica di breve periodo potrebbe essere quella di accostarsi alla narrazione dei Cinquestel­le, che tanti voti ha sottratto al Pd; e magari prepararsi, in caso di rottura del governo, a formare proprio coi grillini un’alleanza di centrosini­stra. Sarebbe un errore: significhe­rebbe riproporre quei caratteri di giustizial­ismo, assistenzi­alismo e statalismo che indebolisc­ono da sempre la credibilit­à della sinistra come forza di governo. E poi si rischiereb­be di essere fagocitati dai cannibali di Casaleggio. D’altro canto è finita anche l’era del Pd come ‘grande tenda’ blairista, sotto la quale si fanno con appena più ritegno le stesse cose del centrodest­ra. Il trionfo di un esecutivo populista è figlio (anche) della crisi di quel modello sociale ed economico, e nessuno più dei progressis­ti è chiamato a trarne le dovute conseguenz­e. Per questo i democratic­i – intesi anche solo come coloro che si oppongono all’autoritari­smo dei vicepremie­r e alla dittatura dei clic – dovranno ripensare un welfare generoso ma adeguato alla ‘nuova’ economia, un europeismo che non accetti supinament­e l’austerity, politiche industrial­i e fiscali che contrastin­o il laissez faire e le disuguagli­anze senza inciampare nel dirigismo. Più facile a dirsi che a farsi, come dimostrano le difficoltà dei loro consanguin­ei da Washington a Bellinzona. Ma quando i nodi di questo governo verranno al pettine, forse imporre una visione alternativ­a sarà più facile di quanto oggi non sembri. Intanto è già molto non doversi fingere morti.

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