La Russia c’è e si teme
A colloquio con Aldo Ferrari, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e ricercatore all’Ispi
Dalla ‘casa comune’ evocata dopo la caduta dell’Unione sovietica alle nuove reciproche minacce di Russia e Occidente il passo è stato più breve del previsto. Ambiguità e ingenuità dell’una e dell’altra parte hanno condotto a uno scenario conflittuale che per ora giova soprattutto a Vladimir Putin, capace di proporsi come garante del ritorno di Mosca allo status di superpotenza.
Cinque minuti, non di più. Tanti ne basterebbero ai missili ipersonici russi per colpire obiettivi (Pentagono compreso) sul suolo statunitense in caso di guerra. Non più tardi di una settimana fa, la tv di Stato russa ha mostrato una mappa dei possibili bersagli in caso di conflitto. Il Cremlino ha sì precisato di non avere “alcun controllo editoriale sui nostri mezzi di comunicazione, inclusi quelli statali”. Ma si sa come vanno le cose da quelle parti: i “nostri mezzi editoriali” sanno da soli che cosa dire e che cosa tacere. Come confondere informazione e propaganda. È la Russia, insomma. Quella che da tempo va affermando, reclamando un’alterità rispetto a un Occidente del quale, sul finire del secolo scorso, era infatuata. O tale era parsa allo stesso Occidente, tronfio “vincitore” della guerra fredda. Dove è nato dunque l’equivoco, e dove condurrà? Lo abbiamo chiesto ad Aldo Ferrari, docente di Lingua e letteratura armena, Storia del Caucaso e Storia della cultura Russa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, e dei Programmi di ricerca su Russia, Caucaso e Asia Centrale dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano
Professore, la ‘casa comune’ vagheggiata da Mikhail Gorbaciov è caduta per le proprie contraddizioni e per la politica ‘espansionista’ dell’Occidente, o per l’affermarsi in Russia di un indirizzo più assertivo, quello che Vladimir Putin esplicitò ancora nel 2007, mettendo in discussione non solo le pretese occidentali, ma anche i loro fondamenti morali?
Con Gorbaciov negli ultimi anni dell’Urss, e nei primi anni dopo la caduta dell’Unione sovietica, Russia ed Europa (e Occidente in generale) ebbero l’occasione di riavvicinarsi in quella che poteva essere chiamata “casa comune europea”. Per qualche anno, questa prospettiva apparve possibile e auspicabile a molti; ma in realtà, sia Russia che Occidente si sono disillusi a vicenda. L’Occidente si aspettava dalla Russia una transizione rapida a una “normalità” politica, economica, culturale, conformandosi cioè al proprio modello. La Russia non l’ha fatto. Dopo la prima fase della presidenza Eltsin, quando pareva volere e poterlo fare, Mosca ha imboccato una strada propria, soprattutto con Putin dagli anni Duemila. In questo senso, l’Occidente è stato deluso dalla Russia. Viceversa, la Russia è stata delusa dall’Occidente perché negli anni della propria massima debolezza – gli anni 90 – è stata trattata non come un partner amico e fidato, ma ancora come un avversario minaccioso e inaffidabile. Lo provano le politiche di espansione proseguite negli stessi anni dall’Unione europea ma soprattutto dalla Nato, inammissibili nell’ottica russa. Mosca poteva non avere nulla contro l’espansione dell’Unione europea a est, ma quando constatò che parallelamente, o prima dell’adesione all’Ue gli stessi Paesi aderivano alla Nato, vale a dire un’alleanza militare di forza ben superiore alla propria, non poté che sentirsi minacciata. Da entrambe le parti ci sono stati e ci sono tuttora motivi fondati per un disamoramento. Ed entrambe hanno una parte di ragione, come è ben possibile osservare, purché non si impieghi il paraocchi degli interessi occidentali, o non ci si adegui acriticamente alla propaganda russa.
Per la sua estensione geografica senza confronti, la Russia è costretta a tenere il piede in molte scarpe, dall’Europa all’Estremo Oriente. Il rivolgersi ad aree di nuova crescente importanza economica e strategica, come quella asiatica, deve dunque essere inteso necessariamente come un cambio di orientamento conflittuale nei confronti dell’Occidente ?
La Russia ha una dimensione geografica e geopolitica bicontinentale. È una potenza euroasiatica, non la si può intendere meramente come un Paese europeo. Non può dunque non avere una attenzione, un rapporto particolare con la Cina e con il resto dell’Asia. La Russia resta ancora oggi un Paese geograficamente proiettato verso l’Asia, ma culturalmente e psicologicamente di matrice occidentale, europea. Per questo non vuole rompere i rapporti con l’Occidente. Anzi è soprattutto all’Occidente che si rivolge. Il fatto è che se ne sente respinta, sistematicamente posta sul banco degli accusati. Nello stesso tempo osserva che a Est cresce rapidamente la potenza economica e politica della Cina. Di qui lo sviluppo di un’attenzione che non è ancora una strategia di allontanamento dall’Occidente. In realtà, come il baricentro della politica e dell’economia mondiali si stanno spostando a est, anche la Russia tende a volgersi a sua volta in tale direzione. Ma lo fa controvoglia, se si può dire così. Non mi sembra che la Russia nutra un amore spiccato per la Cina o per l’Asia in generale. La sua è piuttosto la valutazione di una grande opportunità economica e geopolitica, soprattutto dopo le sanzioni del 2014 e l’espulsione dal G8, punti di rottura inequivocabili con l’Occidente. È da quel momento che la Russia ha deciso di rafforzare la propria cooperazione economica e strategica con la Cina e l’Asia in generale. Ma, ripeto, non parlerei di una Russia che si sta “asiatizzando”, semmai di un Paese che sta prendendo atto del nuovo quadro mondiale determinato dall’irresistibile ascesa dell’Asia, a cui corrisponde, se non un declino, una condizione di estrema difficoltà dell’Occidente e dell’Europa in particolare, che oltretutto tendono a tenerla a distanza. Quello che i nostri Paesi hanno fatto in questi anni è stato negare alla Russia la legittimità politica che le spetta. Su questo si può discutere. Non è detto infatti che la Russia abbia comunque ragione nelle sue azioni; è che noi le abbiamo dato sistematicamente torto. Quando la Nato ha intrapreso la sua espansione nei Paesi dell’ex blocco sovietico, abbiamo deliberatamente ignorato che questo per la Russia equivaleva a un’aggressione militare. Pensi a che cosa significherebbe per la Russia un’adesione dell’Ucraina alla Nato. Non parlo della legittimità delle scelte di uno Stato indipendente, ma dell’effetto che queste possono provocare. È in circostanze simili che l’Occidente ha manifestato tutto il disinteresse per le ragioni russe, giuste o sbagliate che fossero.
Ancora recentemente, l’ex vice primo ministro russo, e consigliere ascoltato del presidente Putin, Vladislav Surkov ha affermato che il successo del modello verticale potere-popolo, di democrazia autoritaria è destinato a imporsi anche in Occidente. Si tratta di un programma o di un’acuta osservazione di un processo in corso?
Le affermazioni di Surkov fanno riferimento a un cambiamento radicale in corso da tempo, che ha quale attore principale non tanto la Russia, quanto la Cina. A lungo, nella nostra parte di mondo si è ritenuto che il problema dei Paesi comunisti, oltre all’oppressione politica, fosse che la mancanza di libertà politica impoverisse l’economia. Credevamo cioè che la ricchezza economica fosse un portato della libertà politica. Quanto all’Unione sovietica, qualche ragione l’avevamo. Il fatto è che la Cina sembra avere confermato che si può essere un Paese severamente autoritario, senza alcuna concessione alla democrazia reale, e conoscere al tempo stesso un’espansione economica eccezionale. Pechino ha dimostrato che il paradigma “democrazia uguale sviluppo economico” non è assoluto. Semmai si può osservare che la Russia è riuscita nell’impresa di rimanere un Paese autoritario e poco sviluppato economicamente. Da questo punto di vista è difficile pensare alla Russia come modello vincente. Tornando a Surkov, secondo cui la democrazia è, se non in ritirata, non più in crescita da una quindicina di anni su scala globale, direi che le sue parole colgono la questione. Si sta cioè formando un asse di Paesi per i quali democrazia e diritti umani non meritano neppure di essere citati nei comunicati ufficiali. Paesi dove stabilità politica e sviluppo economico hanno la preminenza sulla tutela delle regole democratiche. Questo è un dato di fatto. E la Russia, con il suo slittamento verso oriente, sta rafforzando il blocco asiatico. Si può dunque essere anche relativisti riguardo al modello occidentale di democrazia; ma la comparsa di un blocco asiatico così poco attento ai valori democratici non può che generare inquietudine. Mi chiedo di conseguenza se da questo punto di vista, considerata l’enorme crescita della Cina e degli altri Paesi asiatici, sia saggio da parte dell’Occidente spingere loro in braccio la Russia.
La retorica dei ‘valori nazionali’ contrapposti a quelli ‘universali’ in uso a Mosca parrebbe segnare una cesura ideologica nei confronti dell’Urss, ma non viene a sua volta smentita da una politica di potenza che riporta alle vecchie dinamiche delle ‘aree di influenza’?
La Russia, come è stato detto in forma sprezzante anche da Barack Obama, continua a praticare una politica estera ottocentesca, basata sulle sfere d’influenza. Al tempo stesso credo sia giusto osservare che anche l’epoca dell’internazionalismo democratico conteneva elementi evidenti di espansionismo geopolitico. Se pensiamo alla condotta dei Paesi occidentali e degli Stati Uniti in particolare in questi decenni, non possiamo non osservare come fossero dettate da precisi disegni geopolitici, anche dando per autentica la volontà di diffusione dei valori democratici. Basta ricordare che nel 2013 gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq per esportarvi la democrazia, per constatare che la politica di potenza non è stata una prerogativa russa. La Russia, sino all’intervento in Siria, ha mantenuto una politica di potenza prevalentemente ai propri confini, essenzialmente nell’area post-sovietica. E credo che continuerà ad agire entro quei limiti anche nei prossimi decenni. Va piuttosto osservato che la dimensione territoriale della politica estera, tanto vituperata in Occidente, sembra tornata efficace. Russia e Cina lo stanno confermando, così come fanno Turchia e Iran: la vecchia politica di potenza nei confronti dei territori di confine non sembra tramontata come qualcuno aveva immaginato.
Infine: la Russia è all’altezza (economicamente, scientificamente, socialmente) delle proprie pretese, del ruolo a cui ambisce nel mondo che lei ha definito post-occidentale? Non sembra talvolta essere piuttosto una superpotenza del Terzo mondo, legata per le proprie fortune al prezzo delle materie prime di cui è ricco il suo sottosuolo ?
Questo è il problema principale della Russia contemporanea: capace di agire molto efficacemente in politica estera, soprattutto nella sfera di medio raggio, ma priva della comprensione strategica che senza un’economia sviluppata le sue ambizioni devono restare molto limitate. Mi sembra in effetti che vi sia una importante controindicazione da parte della leadership russa: il disinteresse, o peggio ancora la mancanza di volontà di sviluppare, modernizzare e diversificare l’economia per mantenere il controllo politico della società, finisce per limitare fortemente le capacità di crescita del Paese. È un cortocircuito dal quale la dirigenza non riesce, o forse non vuole, a emanciparsi.