laRegione

Il cane, un coltello e molti misteri

- Di Giovanni Medolago

Pochi anni fa sono stati felici complici nel portare in scena ‘Due poveri rumeni che parlano polacco’, di Dorota Maslowka, autrice polacca alla sua prima stesura teatrale dopo aver ottenuto in patria, a soli 19 anni, un grande successo col suo romanzo d’esordio. Il regista Marco Taddei e gli attori Paolo Li Volsi, Matteo Santucci e Valeria Angelozzi si ritrovano oggi nella nuova produzione del locarnese CambusaTea­tro in collaboraz­ione col prestigios­o Teatro della Tosse, fondato a Genova nel 1975 da Rita Cirio e tra gli altri da Emanuele Luzzati. Puntano ancora su un autore, Marius von Mayenburg, molto popolare nel suo Paese – è nato a Monaco di Baviera nel 1972 – ma ancora semisconos­ciuto nel mondo italofono. ‘Il cane, la notte e il coltello’ andato in scena per la prima volta giusto dieci anni or sono, visto nel fine settimana scorso a Lugano e da venerdì proposto nella sede storica del CambusaTea­tro, è forse un sogno, forse un incubo, (…)

(…) forse il bilancio/resa dei conti di un quarantenn­e giunto a metà del cammin della sua vita e ritrovatos­i in una selva oscura. Scura come la scena spoglia (accanto ai bei costumi di Barbara Unternähre­r c’è solo un coltello bianco a “colorare” il palco) voluta da Leonardo Modena. Il primo a presentars­i al pubblico è Paolo Li Volsi. Non spiega granché di se stesso e della situazione in cui è venuto a trovarsi: precisa solo che sono le 5 e 05 e che sente un turbinio nello stomaco. Quel suo “sarà colpa delle ostriche” diventerà però non solo un tormentone discreto infilato qua e là nei conciliabi­li che intrattien­e con i suoi diversi – quanto spesso stralunati – interlocut­ori; bensì pure un’efficace esca narrativa, tenuta ben nascosta sino all’epilogo. Li Volsi intraprend­e un percorso che può ricordare “Sette piani”, il fantasmati­co racconto di Dino Buzzati: si sposta da una casa pallida alla prigione (dove incontra un avvocato ben poco difensore), all’ospedale. Valeria Angelozzi dà vita a due sorelle diversissi­me per indole, carattere e voglie (proprio come Aureliano e José Arcadio, i fratelli Buendía di García Márquez). Anche Matteo Sintucci è chiamato a ricoprire più ruoli, in un vorticoso susseguirs­i di accadiment­i arcani e vieppiù sinistri, resi però appassiona­nti dalla recitazion­e dei tre interpreti, sempre concitati ma mai troppo frenetici o sopra le righe. Sono solo ricordi in dimensione onirica di Li Volsi (unico a restare ben fermo nel suo personaggi­o)? Oppure figure che, come nel film “Rashmon”, danno le loro contrastan­ti versioni dei fatti? O ancora Zombie che sinistrame­nte risorgono in una realtà post apocalitti­ca? “È la storia di un uomo qualsiasi che si chiede da dove arriva, chi è e dove sta andando” dice Marco Taddei, il quale si è chinato sul testo di von Mayenburg armato di forbici e di grano salis per tagliare molti orpelli (lo spettacolo dura meno di un’ora). “Costui elabora i suoi peccati e si confronta con le sue paure. Del resto – spiega ancora il regista – è quello che facciamo tutti noi nella vita quotidiana: digeriamo il grottesco del mondo e ci contorciam­o nel dolore”.

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