Daniela Ryf Ironwoman
Campionessa del mondo, detentrice di vari record, Daniela Ryf nobilita lo sport rossocrociato ai più alti livelli. A 31 anni la solettese specialista dell’Ironman vede ancora ‘margini di miglioramento che mi spronano e mi motivano in un’appassionante sfid
Daniela Ryf nobilita lo sport elvetico ai più alti livelli. A 31 anni la solettese specialista delle lunghe distanze vede ancora ‘margini di miglioramento che mi spronano e mi motivano’.
Ha vinto quattro volte di fila l’Ironman delle Hawaii, per cui la tentazione di definirla ‘donna di ferro’ è forte. Scontata, ma calzante, per Daniela Ryf, atleta solettese che incarna l’eccellenza a livello mondiale. In carriera ha già raggiunto vette insperate, ma non ha smesso di lavorare per salire ancora più in alto, convinta com’è che ci siano ancora margini di miglioramento. Anche per una fuoriclasse che pare invincibile. «Nessuno lo è – esordisce Daniela, affabile e solare –, in nessun ambito. Quando partecipo a una gara devo riuscire a dare il meglio di me. Ogni volta è una sfida, perché so che se non do tutto, c’è qualcuno pronto a battermi. Lo sforzo è fisico e mentale, soprattutto in un Ironman come quello delle Hawaii, che si presenta una sola volta all’anno. Alla partenza bisogna essere consapevoli che sarà una lunga giornata, che molte cose possono accadere. La concentrazione deve essere massima già nelle ore precedenti la competizione. Non ci si può permettere di prenderla alla leggera. Se lo fai, sei perdente prima ancora di prendere il via».
Che relazione ha con la disciplina che l’ha resa famosa? «È una passione. Ci sono cresciuta, la pratico da quando avevo 14 anni. Nuoto volentieri, vado volentieri in bicicletta, e amo correre. Ho avuto la fortuna di fare del triathlon la mia professione. Mi piace l’alternanza tra le discipline, la combinazione delle tre che si fondono per dare vita a un solo sport. È una bella sfida, insita proprio nell’esigenza di combinare le tre discipline che lo compongono, affinché il fisico possa rendere al meglio in ciascuna delle tre».
Rigore e applicazione
Inevitabile parlare anche di sofferenza. Può essere un piacere? «Non posso dire di soffrire volentieri, quello che invece mi piace è la sensazione che si ha dopo un allenamento molto duro. Tornare a casa la sera, veramente stanco, mangiare qualcosa e sdraiarsi sul divano... Piccole cose che considero una ricompensa. La sensazione di essere sfinita la trovo gradevole. So che per avere successo bisogna soffrire, e lavorare. Ma non lo vedo in chiave negativa. Mi alleno per dare il meglio di me, per fare in modo di migliorare la mia forma. È bello scoprire che il corpo reagisce, permettendoti di fare cose che prima non riuscivi a fare. È una grande soddisfazione, il cui prezzo è un po’ di sacrificio in allenamento».
Andare oltre i limiti significa avere anche un grande mentale. «Il triathlon è una questione di rigore e applicazione. Si può andare lontano, se si mettono in campo volontà e applicazione. Serve anche del talento, è chiaro, soprattutto se si ambisce all’élite mondiale, ma nel triathlon per lo più vince chi lavora con maggiori rigore e impegno. La componente mentale è fondamentale. La parte difficile è l’allenamento, il duro lavoro è alla base del successo. Se a una gara arrivi impreparato, non avrai nessuna possibilità. Non è possibile ingannare il fisico in uno sforzo di più di otto ore. La competizione è lo specchio della qualità del lavoro svolto in preparazione. Vince quello che è meglio preparato. Un buon mentale ti sprona a continuare a spingere in allenamento anche quando sei stanco, in un contesto in cui sei per lo più solo con te stesso, senza pubblico, senza incoraggiamenti o applausi, lontano dalla luce dei riflettori».
‘Tutti gli atleti di livello mondiale sono un po’ orgogliosi’
In quale ambito dà il meglio di sé? Allenamento o gara? «Mi alleno molto volentieri, mi piace accorgermi che sono sempre più in forma. Ma ho bisogno delle corse, per motivarmi. Non farei tutto quello che faccio se non avessi davanti un obiettivo preciso, una gara. Un traguardo è necessario, per le motivazioni. La competizione è lo show in cui scarico quello che ho dentro, e sul quale ho lavorato in preparazione. In allenamento non sono mai del tutto convincente, ma faccio il mio lavoro in vista della gara che diventa il momento e il luogo in cui devo mostrare a che punto sono. La competizione non è la parte più dura, bensì quella più bella. Come detto, mi alleno molto volentieri, e continuerei a farlo anche se non avessi più gare da disputare. Solo che non lo farei così duramente (ride, ndr)».
Tanti titoli, tanti riconoscimenti... Daniela Ryf è orgogliosa? «Tutti gli atleti di punta devono esserlo, almeno un po’. Non ho mai avuto la presunzione di vincere tutto, o di diventare campionessa del mondo. Volevo solo capire quanto lontano potessi arrivare, quali traguardi potessi tagliare. Sono nata con questo fisico, è il presupposto iniziale. La domanda che mi sono posta è “cosa farne?”. Un quesito che mi ha sempre affascinato. Non è per orgoglio che competo, tuttavia non posso che ammettere che quando in ballo c’è un primo o un secondo posto, beh quella gara la voglio vincere io, e faccio di tutto per mettere in campo le mie forze e prevalere. In questo, sì, c’è sicuramente del sano orgoglio. Misurato, però. Fosse esagerato, verrebbe meno la gioia. Non si riuscirebbe a praticare uno sport come il triathlon così a lungo, se non si provasse anche gioia, nel farlo. Oggi per me è un lavoro, ma senza gioia non avrei successo».