Un Fil Rouge di idee
Maurizio Viscidi
Il coordinatore delle selezioni giovanili italiane ha ospitato a Coverciano il Team Ticino per la presentazione del concetto di formazione concepito da Mauro Giussani: ‘L’ho trovato utile per possesso palla, transizioni e linee di passaggio. Negli ultimi 10 anni in Italia abbiamo dato vita a una rivoluzione e i risultati si vedono, ma ci manca l’uniformità metodologica svizzera’.
Il Fil Rouge Swiss è sbarcato a Coverciano. Negli scorsi giorni, Mauro Giussani (ideatore del progetto e responsabile metodologico del Team Ticino e di Footeco), assieme all’allenatore della U15 Enrico Di Manno e al preparatore dei portieri Footeco Nicola Muto, ha presentato il metodo di formazione giovanile ad allenatori e responsabili delle under azzurre. Su invito di Maurizio Viscidi, responsabile delle selezioni nazionali italiane U15-U21. E proprio a Maurizio Viscidi abbiamo chiesto conto di questa iniziativa... «Una premessa è d’obbligo – afferma il 57enne tecnico di Bassano del Grappa –. Il Team Ticino già lo conoscevo, in quanto lo avevo visitato circa sei anni fa in compagnia di Arrigo Sacchi, allora responsabile del calcio giovanile italiano. La realtà ticinese, dunque, non mi era sconosciuta. Inoltre, uno spunto supplementare me lo ha fornito la rivista ‘Il Nuovo Calcio’, la quale in due puntate ha presentato nei dettagli il Fil Rouge Swiss. Una metodologia che mi ha incuriosito, per cui ho preso contatto direttamente con Mauro Giussani per organizzare una presentazione. Va detto che tutti i mesi raduno a Coverciano i responsabili delle varie selezioni per due o tre giorni di convegno durante i quali, tra le altre attività, vengono pure proposti interventi tecnici con relatori al di fuori dell’area calcistica italiana. Il Team Ticino ci ha proposto una lezione teorica al mattino e pratica nel pomeriggio».
Quale aspetto di quanto riportato da ‘Il Nuovo Calcio’ l’aveva attirata al punto da prendere contatto con i responsabili ticinesi?
Essenzialmente il fatto che loro si basano su una didattica e una metodologia molto sicure, molto organiche nello svolgimento. Con pochi esercizi (quattro di base) hanno la capacità di allestire una miriade di varianti, chiamate matrioske.
Risultato della presentazione?
È stata preparata e svolta molto bene, con un bel lavoro sul campo, utile per una comprensione completa. Le presentazioni teoriche, per quanto il fruitore sia attento e il relatore bravo, hanno sempre il limite di non avere un’applicazione sul campo. Questa volta, invece, abbiamo provato gli esercizi, alcuni dei quali sono presenti pure nel nostro metodo. Ho trovato il Fil Rouge utile soprattutto per quanto riguarda la transizione della palla, l’occupazione degli spazi, le linee di passaggio. Ci sono fondamentali che in questi quattro esercizi base non sono allenati, ma so che vengono proposti a parte. Alla fine non siamo così lontani. L’originalità sta nel fatto che con solo quattro esercizi di partenza
si sviluppano una serie di proposte correlate.
Il calcio si gioca ovunque in 11 contro 11, con regole uguali per tutti. Eppure, a livello di formazione, le scuole di pensiero sono molte e diverse...
Assolutamente sì. In Italia purtroppo siamo un po’ troppo variegati. Non esiste – ed è un limite della nostra federazione che andrà colmato – una linea comune a tutte le squadre. Anche perché queste rivendicano una certa indipendenza. Il lavoro non raggiunge un grado di concentrazione paragonabile a quello svizzero, dove si privilegia un sistema piramidale che porta i ragazzi di talento a giocare in determinate selezioni per farli crescere ulteriormente. Da noi i giocatori rimangono nei club e diventa difficile aver un’unica linea metodologica.
Fino a qualche decennio fa la scuola formativa italiana era considerata la migliore al mondo, capace di sfornare un numero elevatissimo di talenti. Poi, la ‘catena di montaggio’ si è improvvisamente interrotta e soltanto negli ultimi anni il calcio giovanile azzurro è tornato ad affacciarsi con successo sul palcoscenico internazionale. Le nuove metodologie di allenamento stanno avendo un influsso in questa rinascita?
Abbiamo cambiato tutto, non soltanto metodologia. A partire dal 2010 le redini del settore giovanile le ha prese Arrigo Sacchi e nel 2014 le ha passate a me. Abbiamo provveduto a fare piazza pulita cambiando tutto, dalla metodologia agli allenatori, dalla tipologia dei campionati alle sinergie con club, fino alla riprogrammazione dell’attività con un maggior numero di partite internazionali. Abbiamo potenziato lo scouting, creato nuovi criteri di valutazione dei giocatori, allestito tornei interni per vedere all’opera tutti i ragazzi potenzialmente in odore di convocazione. Un lavoro impegnativo, ma che sta dando risultati. Fino agli anni 2000 tutto andava bene, poi si è creata una vera voragine, mentre adesso stiamo vivendo una congiuntura in forte ripresa: negli ultimi tre anni l’Italia è stata due volte vicecampione europeo U19 e 4ª nel ranking continentale, vicecampione U17 e 6ª nel ranking, bronzo ai Mondiali U20. Questa federazione non aveva mai fatto due finali nello stesso anno, non aveva mai disputato due Mondiali U20 consecutivi, non aveva mai vinto una medaglia con gli U20...
A inizio secolo vi eravate seduti sugli allori dopo i numerosi successi ottenuti con la U21?
A mio modo di vedere c’era stato un mancato ponte di passaggio. Negli anni Settanta i ragazzi si formavano sulla strada, anche perché il calcio era l’unico sport popolare a disposizione di tutti. Con il passare del tempo, però, questo sistema di autoformazione è andato scomparendo, nella stessa misura in cui sono spariti gli spazi per poter giocare liberamente. A quel punto le società non hanno investito nei settori giovanili, preferendo acquistare all’estero giocatori già formati o molto vicini al livello della prima squadra. Dal 2010 ci siamo resi conto di quanto questo approccio fosse sbagliato, per cui la federazione ha messo in atto una vera rivoluzione: ha chiamato Sacchi, ha cambiato gli allenatori, ha adottato nuove metodologie e ha investito ingenti risorse finanziarie. Abbiamo cercato un rapporto stimolante con i club, affinché potessero incentivare la loro attività di base e non si concentrassero soltanto sullo scouting. Una strada lungo la quale alcune società ci hanno seguito, diventando virtuose nel lavoro a favore della formazione giovanile. Se prendiamo la statistica inerente al numero di giocatori convocati per società, la classifica è comandata da Juventus, Inter e Atalanta, società che forniscono ogni anno più di 30 giocatori dalla U15 alla U21. Chi invece riesce a formare pochi ragazzi da mettere a disposizione delle squadre nazionali non lo fa per cattiva volontà, ma perché non ha le strutture adatte. È un problema finanziario, perché investire sui giovani costa e alcuni club versano in situazioni economiche difficili. Senza dimenticare un altro aspetto importante: in Italia si abusa del lavoro tattico a discapito di quello tecnico. Anche in questo caso occorrerà trovare dei correttivi.