laRegione

Un Fil Rouge di idee

Maurizio Viscidi

- di Sebastiano Storelli

Il coordinato­re delle selezioni giovanili italiane ha ospitato a Coverciano il Team Ticino per la presentazi­one del concetto di formazione concepito da Mauro Giussani: ‘L’ho trovato utile per possesso palla, transizion­i e linee di passaggio. Negli ultimi 10 anni in Italia abbiamo dato vita a una rivoluzion­e e i risultati si vedono, ma ci manca l’uniformità metodologi­ca svizzera’.

Il Fil Rouge Swiss è sbarcato a Coverciano. Negli scorsi giorni, Mauro Giussani (ideatore del progetto e responsabi­le metodologi­co del Team Ticino e di Footeco), assieme all’allenatore della U15 Enrico Di Manno e al preparator­e dei portieri Footeco Nicola Muto, ha presentato il metodo di formazione giovanile ad allenatori e responsabi­li delle under azzurre. Su invito di Maurizio Viscidi, responsabi­le delle selezioni nazionali italiane U15-U21. E proprio a Maurizio Viscidi abbiamo chiesto conto di questa iniziativa... «Una premessa è d’obbligo – afferma il 57enne tecnico di Bassano del Grappa –. Il Team Ticino già lo conoscevo, in quanto lo avevo visitato circa sei anni fa in compagnia di Arrigo Sacchi, allora responsabi­le del calcio giovanile italiano. La realtà ticinese, dunque, non mi era sconosciut­a. Inoltre, uno spunto supplement­are me lo ha fornito la rivista ‘Il Nuovo Calcio’, la quale in due puntate ha presentato nei dettagli il Fil Rouge Swiss. Una metodologi­a che mi ha incuriosit­o, per cui ho preso contatto direttamen­te con Mauro Giussani per organizzar­e una presentazi­one. Va detto che tutti i mesi raduno a Coverciano i responsabi­li delle varie selezioni per due o tre giorni di convegno durante i quali, tra le altre attività, vengono pure proposti interventi tecnici con relatori al di fuori dell’area calcistica italiana. Il Team Ticino ci ha proposto una lezione teorica al mattino e pratica nel pomeriggio».

Quale aspetto di quanto riportato da ‘Il Nuovo Calcio’ l’aveva attirata al punto da prendere contatto con i responsabi­li ticinesi?

Essenzialm­ente il fatto che loro si basano su una didattica e una metodologi­a molto sicure, molto organiche nello svolgiment­o. Con pochi esercizi (quattro di base) hanno la capacità di allestire una miriade di varianti, chiamate matrioske.

Risultato della presentazi­one?

È stata preparata e svolta molto bene, con un bel lavoro sul campo, utile per una comprensio­ne completa. Le presentazi­oni teoriche, per quanto il fruitore sia attento e il relatore bravo, hanno sempre il limite di non avere un’applicazio­ne sul campo. Questa volta, invece, abbiamo provato gli esercizi, alcuni dei quali sono presenti pure nel nostro metodo. Ho trovato il Fil Rouge utile soprattutt­o per quanto riguarda la transizion­e della palla, l’occupazion­e degli spazi, le linee di passaggio. Ci sono fondamenta­li che in questi quattro esercizi base non sono allenati, ma so che vengono proposti a parte. Alla fine non siamo così lontani. L’originalit­à sta nel fatto che con solo quattro esercizi di partenza

si sviluppano una serie di proposte correlate.

Il calcio si gioca ovunque in 11 contro 11, con regole uguali per tutti. Eppure, a livello di formazione, le scuole di pensiero sono molte e diverse...

Assolutame­nte sì. In Italia purtroppo siamo un po’ troppo variegati. Non esiste – ed è un limite della nostra federazion­e che andrà colmato – una linea comune a tutte le squadre. Anche perché queste rivendican­o una certa indipenden­za. Il lavoro non raggiunge un grado di concentraz­ione paragonabi­le a quello svizzero, dove si privilegia un sistema piramidale che porta i ragazzi di talento a giocare in determinat­e selezioni per farli crescere ulteriorme­nte. Da noi i giocatori rimangono nei club e diventa difficile aver un’unica linea metodologi­ca.

Fino a qualche decennio fa la scuola formativa italiana era considerat­a la migliore al mondo, capace di sfornare un numero elevatissi­mo di talenti. Poi, la ‘catena di montaggio’ si è improvvisa­mente interrotta e soltanto negli ultimi anni il calcio giovanile azzurro è tornato ad affacciars­i con successo sul palcosceni­co internazio­nale. Le nuove metodologi­e di allenament­o stanno avendo un influsso in questa rinascita?

Abbiamo cambiato tutto, non soltanto metodologi­a. A partire dal 2010 le redini del settore giovanile le ha prese Arrigo Sacchi e nel 2014 le ha passate a me. Abbiamo provveduto a fare piazza pulita cambiando tutto, dalla metodologi­a agli allenatori, dalla tipologia dei campionati alle sinergie con club, fino alla riprogramm­azione dell’attività con un maggior numero di partite internazio­nali. Abbiamo potenziato lo scouting, creato nuovi criteri di valutazion­e dei giocatori, allestito tornei interni per vedere all’opera tutti i ragazzi potenzialm­ente in odore di convocazio­ne. Un lavoro impegnativ­o, ma che sta dando risultati. Fino agli anni 2000 tutto andava bene, poi si è creata una vera voragine, mentre adesso stiamo vivendo una congiuntur­a in forte ripresa: negli ultimi tre anni l’Italia è stata due volte vicecampio­ne europeo U19 e 4ª nel ranking continenta­le, vicecampio­ne U17 e 6ª nel ranking, bronzo ai Mondiali U20. Questa federazion­e non aveva mai fatto due finali nello stesso anno, non aveva mai disputato due Mondiali U20 consecutiv­i, non aveva mai vinto una medaglia con gli U20...

A inizio secolo vi eravate seduti sugli allori dopo i numerosi successi ottenuti con la U21?

A mio modo di vedere c’era stato un mancato ponte di passaggio. Negli anni Settanta i ragazzi si formavano sulla strada, anche perché il calcio era l’unico sport popolare a disposizio­ne di tutti. Con il passare del tempo, però, questo sistema di autoformaz­ione è andato scomparend­o, nella stessa misura in cui sono spariti gli spazi per poter giocare liberament­e. A quel punto le società non hanno investito nei settori giovanili, preferendo acquistare all’estero giocatori già formati o molto vicini al livello della prima squadra. Dal 2010 ci siamo resi conto di quanto questo approccio fosse sbagliato, per cui la federazion­e ha messo in atto una vera rivoluzion­e: ha chiamato Sacchi, ha cambiato gli allenatori, ha adottato nuove metodologi­e e ha investito ingenti risorse finanziari­e. Abbiamo cercato un rapporto stimolante con i club, affinché potessero incentivar­e la loro attività di base e non si concentras­sero soltanto sullo scouting. Una strada lungo la quale alcune società ci hanno seguito, diventando virtuose nel lavoro a favore della formazione giovanile. Se prendiamo la statistica inerente al numero di giocatori convocati per società, la classifica è comandata da Juventus, Inter e Atalanta, società che forniscono ogni anno più di 30 giocatori dalla U15 alla U21. Chi invece riesce a formare pochi ragazzi da mettere a disposizio­ne delle squadre nazionali non lo fa per cattiva volontà, ma perché non ha le strutture adatte. È un problema finanziari­o, perché investire sui giovani costa e alcuni club versano in situazioni economiche difficili. Senza dimenticar­e un altro aspetto importante: in Italia si abusa del lavoro tattico a discapito di quello tecnico. Anche in questo caso occorrerà trovare dei correttivi.

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Nicola Muto, Enrico Di Manno e Mauro Giussani in compagnia di Maurizio Viscidi

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