laRegione

Dal ‘selfie’ al ‘dronie’

Usati nei più svariati modi, da privati cittadini e da enti pubblici, i droni oggi sarebbero all’incirca 20mila in Svizzera. La diffusione di questa tecnologia pone però un certo numero di problemi, in parte già riscontrat­i in relazione alla videosorve­gli

- Di Stefano Guerra

I ‘Drone Days’ al Politecnic­o di Losanna attirano migliaia di curiosi; il mercato di questi apparecchi è fiorente, anche in Svizzera; e attorno a Losanna si sta creando una sorta di ‘Drone Valley.’ Una nuova moda, dopo quella della videosorve­glianza?

Molti aspetti accomunano videosorve­glianza e droni. Ma non metterei l’una e gli altri sullo stesso livello. La videosorve­glianza è una sorveglian­za sistematic­a esercitata su un determinat­o spazio per svariate ragioni. Il drone è assai più polivalent­e. Ed è usato molto a scopo ricreativo: un sabato pomeriggio si va con la famiglia su una collina, si fa un pic-nic e si pilota un drone. Insomma: ci si diverte. E ormai si parla di ‘dronie’, l’equivalent­e del ‘selfie’ con gli smartphone.

I droni sono usati anche per ragioni profession­ali. Come, in Svizzera?

Nei più svariati modi [cfr. infografic­a, ndr]. Ad esempio: l’Università di Neuchâtel ha fatto una breve clip pubblicita­ria con immagini riprese dai droni; i pompieri li utilizzano per sorvolare edifici in fiamme; e così via. Le ragioni che stanno alla base della diffusione di questa tecnologia – alla portata di tutti [in Svizzera si può acquistare un drone per meno di 100 franchi, ndr] – sono molteplici, proprio perché questi apparecchi si prestano a usi di diverso tipo. Il drone come lo conosciamo oggi, comunque, non ha più nulla a che vedere con quello delle origini: una tecnologia militare per sorvegliar­e e uccidere. In Svizzera, l’esercito quest’anno dovrebbe sostituire il suo vecchio drone; e una quindicina di corpi di polizia cantonali, così come le guardie di frontiera, fanno capo ai droni. Ma gli apparecchi non sono utilizzati prevalente­mente per missioni di sorveglian­za.

Lei ha lavorato per tre anni sull’impiego di droni da parte della polizia. Cosa ci può dire al riguardo?

Alla polizia questa tecnologia serve più per fotografar­e degli incidenti dall’alto, ad esempio, che non per sorvegliar­e il territorio. Anche perché sopra le città i droni non possono essere impiegati in modo sistematic­o: per questioni di autonomia di crociera (le batterie si scaricano dopo 20 minuti) e di sicurezza (i droni cadono abbastanza facilmente). Constato che – attraverso l’acquisizio­ne di questa tecnologia – un corpo di polizia diventa ‘tre-dimensiona­le’: alle dimensioni terrestre e lacuale, si aggiunge infatti quella aerea. A poco a poco nei corpi di polizia si è cominciato a parlare di spazio aereo, qualcosa che ancora pochi anni fa non rientrava nell’ordine del possibile. Nel frattempo, lo spazio aereo è diventato un contesto nel quale la polizia agisce, ma anche un oggetto sul quale bisogna agire perché si è in presenza di altri droni: è diventato un problema (perché lo spazio è già molto popolato da elicotteri, aerei, altri droni, eccetera), ma anche un’opportunit­à (perché si possono sviluppare nuove, promettent­i attività). Mesi fa a Istanbul c’è stata una manifestaz­ione. I poliziotti erano schierati di fronte ai manifestan­ti. Ciascuna delle due forze in campo aveva il proprio drone, che scrutava l’avversario e anche il suo apparecchi­o. In situazioni come queste si sviluppano nuove geometrie del potere, per cui la polizia è confrontat­a con sfide inedite.

In che modo, più in generale, i rapporti di potere nella gestione dello spazio aereo vengono modificati?

Diffusione dei droni non rima con democratiz­zazione. Anni fa con una classe dell’Università di Neuchâtel abbiamo svolto un sondaggio: volevamo sapere cosa ne pensava la popolazion­e neocastell­ana di questa tecnologia. Ebbene, è emerso che ad acquistare un drone – potenzialm­ente alla portata di tutti, come detto – in realtà sono essenzialm­ente giovani uomini avvezzi alla tecnologia. Lo spazio aereo resta uno spazio dominato da un determinat­o tipo di attori: non tutti guardano (e non tutto è visto). La prospettiv­a verticale, la visione dall’alto, è sempre stata prerogativ­a di pochi: lo Stato, con i suoi cartografi e i satelliti, il re con le torri dei suoi castelli, eccetera; i droni confermano la predominan­za di uno sguardo maschile sullo spazio: in questo senso contribuis­cono a riprodurre delle dinamiche di potere consolidat­e. E poi c’è il fatto che i droni non sono un fenomeno urbano, ma rurale.

In che senso?

Per una questione di sicurezza non si possono utilizzare i droni sopra le folle. Diversamen­te dalla videosorve­glianza e da altre moderne tecnologie che nascono e si diffondono in un contesto urbano, i droni restano perciò ‘lontani’ dalle città e dalle persone che vi abitano. Abbiamo a che fare con una tecnologia a vocazione prevalente­mente rurale. Si stima che in futuro l’80% del mercato dei droni sarà nell’agricoltur­a: per censire le piante, identifica­re delle malattie, irrigare, spargere pesticidi (una start-up vallesana ha il primo sistema di droni autorizzat­o per questo tipo di attività in Europa) e via dicendo.

Gli studi che ha realizzato indicano che i droni – quelli privati, perlomeno – non sono particolar­mente apprezzati dalla popolazion­e svizzera. Come lo spiega?

Vediamo un’analogia quasi perfetta con la videosorve­glianza. La popolazion­e accetta molto volentieri la videosorve­glianza da parte della polizia. Lo stesso vale per i droni utilizzati anche dall’esercito e dalle guardie di confine. Invece, l’utilizzo delle telecamere di videosorve­glianza e dei droni da parte dei privati – profession­isti e hobbisti – è molto criticato. Abbiamo constatato che le persone in genere sono molto preoccupat­e per l’integrità della sfera privata, oltre che per la loro incolumità e per possibili attentati terroristi­ci. Si può affermare questo: il monopolio statale dello sguardo verticale sullo spazio viene legittimat­o dalla popolazion­e. In altre parole: il controllo dello spazio aereo appartiene sempre allo Stato, solo lui continua ad avere il diritto di guardarci dall’alto.

Lei afferma che la videosorve­glianza e i droni implicano una ‘messa a distanza’ spaziale, sociale e mentale. Cosa intende?

È qualcosa di inerente a tutte queste nuove tecnologie, non soltanto a quelle di sorveglian­za visiva: la capacità di accumulare informazio­ni su spazi e attività nei quali i soggetti non sono copresenti. Si possono piazzare telecamere di videosorve­glianza ovunque, in seguito centralizz­are le immagini e gestire questa massa di informazio­ni a distanza. Tutto ciò pone un certo numero di problemi. Ad esempio: se qualcosa succede là dove si sorveglia, non si può intervenir­e. Nella valutazion­e che abbiamo fatto nel 2016 del progetto di videosorve­glianza pubblica nel quartiere dei Pâquis a Ginevra [il più esteso del genere mai realizzato in Svizzera: ‘laRegione’ ne ha ampiamente riferito nel febbraio del 2017, ndr], gli abitanti ci dicevano di preferire di gran lunga degli agenti di polizia in carne e ossa, presenti sul posto e pronti a intervenir­e. La stessa cosa capita sui treni regionali in Svizzera: ci sono sempre meno controllor­i, perché vengono sostituiti dalle telecamere di videosorve­glianza. Queste tecnologie, poi, trasmetton­o soltanto una parte della realtà, non colgono la realtà nel suo insieme. Sono tecnologie visive, non registrano ad esempio i suoni o gli odori. Una polizia che si rifugia in una centrale di sorveglian­za o che pilota un drone a distanza non avrà una visione d’assieme, completa di una situazione, che per sua natura è complessa e multidimen­sionale.

Videosorve­glianza, droni, smartphone... Qual è l’impatto della numerizzaz­ione della vita quotidiana sul comune cittadino?

La moltiplica­zione dei droni – ma il discorso può essere esteso agli smartphone, con i quali fotografia­mo praticamen­te tutto, dall’alba al tramonto – si iscrive in una tendenza generale di banalizzaz­ione delle tecnologie numeriche, è una manifestaz­ione di questa ‘cultura della nuova visibilità’. Non dobbiamo dimenticar­e che oggi assistiamo a una diffusione del potere. Diventa vieppiù difficile sapere chi accumula quali dati, come e dove lo fa. Tutti gli studi realizzati sin qui, in Svizzera e altrove, mostrano per esempio che le persone dimentican­o la presenza delle telecamere di videosorve­glianza. In generale i cittadini non si rendono conto, si sbagliano sistematic­amente sulle possibilit­à che altri hanno di accumulare una massa di informazio­ni su di noi, di analizzarl­e e di agire su di noi. E cosa comporta tutto questo per l’idea kantiana di cittadino, ovvero di un individuo razionale in grado di prendere le proprie decisioni in funzione di parametri ben definiti?

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KEYSTONE / INFOGRAFIC­A LAREGIONE

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