Il difficile equilibrio tra profitto e desiderio di aiutare tutti
«Biotechnology is an amazing business». Molte le cose straordinarie, nel settore in cui George Scangos – Ceo di Vir Biotechnology, la società che, nel 2017, ha acquisito Humabs – ha deciso di investire. C’è la ricerca in un settore, quello degli anticorpi monoclonali, che «permette di fare cose che sarebbe difficile fare altrimenti». Ma c’è anche la possibilità di aiutare le persone: e il primo riferimento che, dopo la visita ai laboratori, ci fa Scangos riguarda l’Ebola. Qui la terapia a base di anticorpi ha un vantaggio rispetto ai vaccini che «forniscono protezione per anni ma impiegano due, tre, quattro settimane a diventare efficaci» Gli anticorpi come quelli sviluppati dalla Humabs e sperimentati in questo momento in Congo «sono subito attivi, anche se proteggono per mesi, non anni». «Sarebbe magnifico avere tutta la popolazione vaccinata, ma in caso di epidemia serve una protezione immediata» aggiunge Scangos.
Spesso l’industria farmaceutica è accusata di avere più a cuore i guadagni che la salute delle persone. Quanto c’è di vero?
È parzialmente vero. La motivazione di molti dei ricercatori che lavorano nell’industria farmaceutica non è il denaro, ma sviluppare medicine che siano di aiuto alle persone. Quando sei responsabile di una grande azienda, a scopo di lucro, che vende farmaci e ha degli azionisti, è richiesto un certo livello di profitti. Viviamo in un sistema capitalistico e questo è vero per Roche e Novartis qui in Svizzera, è vero per Johnson & Johnson negli Stati Uniti, è vero ovunque. Inoltre Ricerca e Sviluppo sono molto costosi: quando vendi un farmaco, devi farlo a un prezzo che permetta di recuperare gli investimenti fatti e sostenga future ricerche. E ci sono dei rischi: le aziende farmaceutiche hanno anni buoni, in cui fanno un sacco di soldi, e anni cattivi, in cui non fanno molti soldi. Ci sono aziende che approfittano della situazione e fissano prezzi molto alti per i propri farmaci, e questo non è giusto: i farmaci devono dimostrare il proprio valore per i pazienti, per la società. È complicato.
Viviamo in un sistema capitalistico, si è detto. Il che porta però a trascurare malattie che colpiscono le zone povere del pianeta. Un’ingiustizia affrontata da fondazioni come la Bill and Melinda Gates Foundation. Può essere una soluzione?
È una soluzione parziale perché il costo medio per mettere in commercio un farmaco è un miliardo di dollari e le fondazioni non forniscono un sostegno economico di questo livello. Ma sostengono le prime fasi della ricerca, che sono quelle più rischiose. Qui alla Humabs, e alla Vir a San Francisco, riceviamo il sostegno della fondazione Gates per alcune ricerche sulla tubercolosi e l’Hiv. Malattie che a volte sono presenti anche nei Paesi sviluppati – l’Aids è ad esempio un problema mondiale – ma che colpiscono duramente i Paesi in via di sviluppo.
E poi abbiamo malattie, come la malaria, da noi scomparse…
La malaria non è un problema in Svizzera, non è un problema negli Stati Uniti, ma ogni anno, nel mondo, muoiono migliaia di persone e per questo dobbiamo trovare dei farmaci. Ma anche per malattie come la malaria c’è un piccolo mercato nei Paesi sviluppati: chi va in Africa vuole essere protetto dalla malaria quando è lì, per cui un farmaco non sarebbe un prodotto importante ma probabilmente si ripagherebbe. Per l’Ebola, invece, non c’è mercato, non c’è possibilità di guadagno: è puramente altruistico, le persone muoiono e noi possiamo, e dobbiamo, aiutarle. È una situazione complessa: ci sono farmaci su cui si può guadagnare molto, altri poco, altri niente, ma dobbiamo lavorare sull’insieme, perché sono tutte urgenze sanitarie e dobbiamo affrontarle in un modo che abbia senso per i nostri investitori. È qui che il sostegno delle fondazioni può fare la differenza.
Tornando alla malaria: l’ideale sarebbe vendere il farmaco a caro prezzo ai turisti, così da ripagare gli investimenti, e a basso prezzo alle popolazioni locali.
Ed è possibile vendere farmaci a prezzi diversi in Paesi diversi. C’è un’organizzazione benefica, chiamata Gavi, che acquista vaccini – a un prezzo molto basso, tra i 2 e i 20 dollari a seconda del vaccino – e li fornisce ai Paesi in via di sviluppo. Milioni di persone vengono vaccinate grazie a Gavi. La domanda è: potremmo produrre anticorpi per la malaria spendendo questa cifra? Perché se realizzarli ci costasse 500 dollari, non sarebbe sostenibile. Io penso che sì, potremmo riuscirci – ma negli Stati Uniti non venderemmo quegli anticorpi a 20 dollari, possiamo fare un prezzo più alto, e dobbiamo farlo perché gli Stati Uniti sono un Paese ricco che può permettersi di pagare di più e sostenere il lavoro per fornire il farmaco a un prezzo più economico negli altri Paesi.
Tutelate le vostre ricerche tramite brevetti. Ci sono delle procedure diverse in caso di finanziamenti pubblici o provenienti da fondazioni?
La procedura è la stessa ma, ad esempio, la fondazione Gates vuole il diritto a distribuire i farmaci nei Paesi poveri, mentre non ci sono problemi se vendiamo quei farmaci nei Paesi ricchi. L’idea è che loro sostengono il nostro lavoro e se riusciamo a realizzare un vaccino per l’Hiv, che interesserebbe persone in tutto il mondo, la fondazione Gates lo potrebbe vendere a un prezzo basso nei Paesi in via di sviluppo. Da parte loro è assolutamente sensato – e in verità piace molto anche a noi perché vogliamo che tutti traggano beneficio dal nostro lavoro, indipendentemente dalla loro disponibilità economica.