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Dipendenza da quartetto d’archi

Lugano Musica / Viaggio al termine del Lac, lasciandos­i sedurre da un gioco sublime Nonostante la tragicomic­a ascesa al sottotetto del Lac, il caldo e l’umidità tropicale, un appuntamen­to imperdibil­e con una serie di concerti che testimonia la qualità del

- Di Enrico Colombo

Una cinquantin­a di melomani fatti attendere in zona guardaroba, poi scortati come carcerati fino al Teatro Studio, su sotto il tetto del Lac. Vietata la catarsi della salita a piedi, obbligator­io anche per claustrofo­bi l’uso dell’ascensore malfunzion­ante. Ciononosta­nte un appuntamen­to irresistib­ile per gli affetti da dipendenza dal quartetto d’archi, i sedotti dal gioco con quattro volte quattro corde. Vent’anni fa chiesi a Thomas Kakuska, il violista del mitico Quartetto Alban Berg, se con i suoi colleghi avesse pensato di suonare senza spartito. Trascrivo parte della risposta: «Noi non guardiamo sempre le note, ma le abbiamo sempre davanti. È una sicurezza per quando succede qualcosa di imprevisto. E in una interpreta­zione viva succede sempre. Se non guardiamo le note comunichia­mo tra noi con lo sguardo, ma appena capita un dettaglio da decidere all’istante ci riferiamo alla partitura. Anche i solisti e i direttori incontrano queste situazioni, ma loro sono soli a decidere. Ognuno di noi deve invece tener conto degli altri tre e la partitura ci risparmia uno sforzo di concentraz­ione non indispensa­bile all’interpreta­zione».

Weekend caldo ma intelligen­te

Sono parole che aiutano a capire perché il Teatro Studio, una sala disadorna, senza pretese acustiche, con solo settanta posti, è una sede ideale per la grande musica da camera: le formazioni, vittime del loro prestigio e costrette ad esibirsi davanti a migliaia di spettatori, ritrovano qui il piacere dell’intimità cameristic­a; gli ascoltator­i, a due passi dagli interpreti, vedono i loro cenni d’intesa e l’immediata traduzione in gesti musicali, godono dell’ascolto diretto, che non ha bisogno di mediazioni acustiche. Merita una speciale ammirazion­e l’intelligen­za della direzione di Lugano Mu-

sica che ha creato il Weekend di quartetti, giunto alla quarta edizione, ossia al dodicesimo concerto. Ricordo con emozione le esibizioni del Cuarteto Casals e del Jerusalem Quartet, venuti due volte, del Prazák Quartet, venuto l’anno scorso, e già sento il piacer di porre in lista la formazione che ha aperto l’edizione di quest’anno. L’Artemis Quartett, costituito quarant’anni fa a Lubecca, ha mostrato una tale cura di ogni dettaglio delle partiture da ricordare come l’appartenen­za a un quartetto d’archi può, forse deve, essere esclusiva, ogni impegno in un’altra formazione immaginabi­le solo come evasione ricreativa. L’Artemis ha aperto il programma con una deliziosa esecuzione del (troppo) noto Adagio di Samuel Barber. Del secondo Quartetto di Benjamin Britten, composto a 43 anni, ha dato un versione serena, quasi senza tracce dell’angoscia che ancora trafigge l’autore nel convivere con la sua omosessual­ità. Ha chiuso il programma con “La morte e la fanciulla” di Franz Schubert, offrendo un’interpreta­zione di straordina­ria bellezza, che tento di caratteriz­zare con due aggettivi: estroversa e monumental­e. Il secondo concerto è stato affidato al nostro Quartetto Energie Nove, formato di ottime prime parti dell’Orchestra della Svizzera Italiana, che hanno avuto il merito di presentare un brano quasi sconosciut­o, ma degno d’essere accostato a brani famosi: il Quartetto n. 1 “Rispetti e strambotti” di Gian Francesco Malipiero. Sono musicisti impegnatis­simi con l’orchestra, è quindi comprensib­ile che nel Quartetto n. 2 di Sergej Prokof’ev e nell’op. 130 di Ludwig van Beethoven abbiano mostrato molte cose ancora da perfeziona­re. Non li ritengo tuttavia responsabi­li dei problemi di intonazion­e, perché sabato sera nel Teatro Studio c’era una temperatur­a prossima a quella di una sauna. Sembra incredibil­e che al Lac ancora non si sappia regolare la temperatur­a e l’umidità nelle sale. Le Quatuor Modigliani, costituito a Parigi nel 2003, ma già richiesto in tutto il mondo, ha presentato un programma esteso su due secoli, dal “Quartetto delle quinte” di Joseph Haydn (1797) a “Terra memoria” di Kaija Saariaho (2006) con l’op. 51 n.2 di Johannes Brahms. Avrei qualche riserva sull’esecuzione di Haydn: vi ho trovato troppa uniformità delle quattro voci, non per mancanza di diversità timbriche, ma piuttosto per assenza di antinomie nel fraseggio. Invece un’ammirazion­e incondizio­nata negli altri due brani. Avevo ascoltato “Terra memoria”, dieci anni fa a Lucerna con l’Emerson Quartet. La bella esecuzione di domenica scorsa mi ha confermato l’impression­e che il lavoro di Saariaho sia l’equivalent­e musicale del “Posto delle fragole”, il film di Ingmar Bergmann del 1957. Poi gran finale tardo-romantico con un’ultima splendida interpreta­zione: veramente indimentic­abili i colori pastello con i quali il Modigliani ha saputo evocare la timidezza caparbia di Johannes Brahms.

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Quartetto Modigliani

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