Dipendenza da quartetto d’archi
Lugano Musica / Viaggio al termine del Lac, lasciandosi sedurre da un gioco sublime Nonostante la tragicomica ascesa al sottotetto del Lac, il caldo e l’umidità tropicale, un appuntamento imperdibile con una serie di concerti che testimonia la qualità del
Una cinquantina di melomani fatti attendere in zona guardaroba, poi scortati come carcerati fino al Teatro Studio, su sotto il tetto del Lac. Vietata la catarsi della salita a piedi, obbligatorio anche per claustrofobi l’uso dell’ascensore malfunzionante. Ciononostante un appuntamento irresistibile per gli affetti da dipendenza dal quartetto d’archi, i sedotti dal gioco con quattro volte quattro corde. Vent’anni fa chiesi a Thomas Kakuska, il violista del mitico Quartetto Alban Berg, se con i suoi colleghi avesse pensato di suonare senza spartito. Trascrivo parte della risposta: «Noi non guardiamo sempre le note, ma le abbiamo sempre davanti. È una sicurezza per quando succede qualcosa di imprevisto. E in una interpretazione viva succede sempre. Se non guardiamo le note comunichiamo tra noi con lo sguardo, ma appena capita un dettaglio da decidere all’istante ci riferiamo alla partitura. Anche i solisti e i direttori incontrano queste situazioni, ma loro sono soli a decidere. Ognuno di noi deve invece tener conto degli altri tre e la partitura ci risparmia uno sforzo di concentrazione non indispensabile all’interpretazione».
Weekend caldo ma intelligente
Sono parole che aiutano a capire perché il Teatro Studio, una sala disadorna, senza pretese acustiche, con solo settanta posti, è una sede ideale per la grande musica da camera: le formazioni, vittime del loro prestigio e costrette ad esibirsi davanti a migliaia di spettatori, ritrovano qui il piacere dell’intimità cameristica; gli ascoltatori, a due passi dagli interpreti, vedono i loro cenni d’intesa e l’immediata traduzione in gesti musicali, godono dell’ascolto diretto, che non ha bisogno di mediazioni acustiche. Merita una speciale ammirazione l’intelligenza della direzione di Lugano Mu-
sica che ha creato il Weekend di quartetti, giunto alla quarta edizione, ossia al dodicesimo concerto. Ricordo con emozione le esibizioni del Cuarteto Casals e del Jerusalem Quartet, venuti due volte, del Prazák Quartet, venuto l’anno scorso, e già sento il piacer di porre in lista la formazione che ha aperto l’edizione di quest’anno. L’Artemis Quartett, costituito quarant’anni fa a Lubecca, ha mostrato una tale cura di ogni dettaglio delle partiture da ricordare come l’appartenenza a un quartetto d’archi può, forse deve, essere esclusiva, ogni impegno in un’altra formazione immaginabile solo come evasione ricreativa. L’Artemis ha aperto il programma con una deliziosa esecuzione del (troppo) noto Adagio di Samuel Barber. Del secondo Quartetto di Benjamin Britten, composto a 43 anni, ha dato un versione serena, quasi senza tracce dell’angoscia che ancora trafigge l’autore nel convivere con la sua omosessualità. Ha chiuso il programma con “La morte e la fanciulla” di Franz Schubert, offrendo un’interpretazione di straordinaria bellezza, che tento di caratterizzare con due aggettivi: estroversa e monumentale. Il secondo concerto è stato affidato al nostro Quartetto Energie Nove, formato di ottime prime parti dell’Orchestra della Svizzera Italiana, che hanno avuto il merito di presentare un brano quasi sconosciuto, ma degno d’essere accostato a brani famosi: il Quartetto n. 1 “Rispetti e strambotti” di Gian Francesco Malipiero. Sono musicisti impegnatissimi con l’orchestra, è quindi comprensibile che nel Quartetto n. 2 di Sergej Prokof’ev e nell’op. 130 di Ludwig van Beethoven abbiano mostrato molte cose ancora da perfezionare. Non li ritengo tuttavia responsabili dei problemi di intonazione, perché sabato sera nel Teatro Studio c’era una temperatura prossima a quella di una sauna. Sembra incredibile che al Lac ancora non si sappia regolare la temperatura e l’umidità nelle sale. Le Quatuor Modigliani, costituito a Parigi nel 2003, ma già richiesto in tutto il mondo, ha presentato un programma esteso su due secoli, dal “Quartetto delle quinte” di Joseph Haydn (1797) a “Terra memoria” di Kaija Saariaho (2006) con l’op. 51 n.2 di Johannes Brahms. Avrei qualche riserva sull’esecuzione di Haydn: vi ho trovato troppa uniformità delle quattro voci, non per mancanza di diversità timbriche, ma piuttosto per assenza di antinomie nel fraseggio. Invece un’ammirazione incondizionata negli altri due brani. Avevo ascoltato “Terra memoria”, dieci anni fa a Lucerna con l’Emerson Quartet. La bella esecuzione di domenica scorsa mi ha confermato l’impressione che il lavoro di Saariaho sia l’equivalente musicale del “Posto delle fragole”, il film di Ingmar Bergmann del 1957. Poi gran finale tardo-romantico con un’ultima splendida interpretazione: veramente indimenticabili i colori pastello con i quali il Modigliani ha saputo evocare la timidezza caparbia di Johannes Brahms.