Né edificabili, né urbanizzati
Per i giudici i terreni privati di Valera non sono stati ‘spogliati’ del loro potenziale edilizio Ecco le ragioni che hanno portato il Tribunale di espropriazione a bocciare le richieste milionarie di indennizzo dei proprietari
Non è che il primo round. Più che una probabilità è una certezza: i due maggiori proprietari di Valera non accetteranno tanto facilmente la sconfitta patita davanti al Tribunale di espropriazione (cfr. ‘laRegione’ di ieri). Per il momento, però, toccherà a loro, ai privati, pagare, di fatto, un’indennità (per ‘ripetibili’, ovvero le spese legali) al Comune; e non viceversa. Sono solo 9mila franchi (in totale), quelli fissati dal Tribunale in calce al verdetto, ma fanno la differenza in una causa che vantava un indennizzo plurimilionario (di oltre 40 milioni di franchi) per espropriazione materiale. Sotto i riflettori ci sono terreni di cui i titolari rivendicano l’edificabilità dal 2012. I giudici, alla testa la presidente Margherita De Morpurgo, hanno raggelato, però, ogni ambizione e sentenziato che quei fondi, parte integrante del comparto oggi al centro di un Piano di utilizzazione cantonale (Puc), non possono essere considerati edificabili. Anche perché non poggiano su una pianificazione (l’allora Piano regolatore del Comune di Rancate) rispettosa delle disposizioni federali. Il che, agli occhi di chi era chiamato a dirimere la vertenza, ha fatto cadere pure le pretese finanziarie dei proprietari. Una serie di appezzamenti incastonati nei 190mila metri quadri di un’area, lì fra Rancate, Ligornetto e Genestrerio (quartieri di Mendrisio), che per il suo futuro aspira a una vocazione più verde, “in termini naturalistici, agricoli e ricreativi”, come precisa lo stesso Tribunale. E una convinzione, quella a cui hanno dato voce i privati: essere stati “spogliati” delle potenzialità edilizie dei loro beni. Sulla mappa quei terreni restituiscono, ad esempio, un’area dove in passato c’erano delle cisterne di carburante, uno spazio incolto con, al centro, una vasca in cemento armato per raccogliere l’acqua per l’impianto anti-incendio o ancora spazi trasformati in posteggi o deposito di inerti. È lì che i proprietari hanno immaginato spiazzi provvisori per mezzi pesanti o una rimessa per la manutenzione e il lavaggio degli autobus. Tutti progetti sin qui naufragati sul veto di Comune e Cantone. Il punto è che anche per
il Tribunale d’espropriazione non vi sono gli estremi per lamentare un mancato utilizzo delle superfici e di conseguenza per chiedere un indennizzo quale esproprio materiale. E le ragioni portano lontano nel tempo, ovvero al 1983 e al Piano regolatore di Rancate, che aveva inserito le proprietà in zona industriale. Un piano che oggi i giudici rammentano essere stato “sovradimensionato” e non in linea con la Legge federale sulla pianificazione del territorio. Di più: alla legislazione superiore non ci si è mai adeguati, portando quel Pr a perdere di “validità” nella delimitazione delle zone edificabili. È in questo contesto che si innesta pure il veto cantonale sulla zona per depositi di idrocarburi proposta a livello comunale. Nel 2002 il governo, ricordano i giudici, aveva così domandato di rivedere la pianificazione, riconsiderando i contenuti e ordinando l’adozione di una variante. Una situazione sfociata in seguito nell’attuazione di una zona di pianificazione, durata 7 anni.
‘Non vi sono state restrizioni’
Tracciato il quadro, il Tribunale non ritiene siano calate delle restrizioni sui fondi dei privati. Al Comune, motiva, è stato solo ingiunto di studiare “una migliore definizione del comparto”. E ciò non prevede, si ribadisce nel verdetto, né un esproprio materiale, né un dezonamento. In sostanza, ci si è trovati di fronte a un comprensorio “a sé stante, lontano e nettamente disgiunto dalla zona edificabile”. Quindi i terreni fulcro di tanto interesse, “non potevano essere considerati pronti per la costruzione, perché giuridicamente inedificabili”. Quelle aree risultavano, insomma, ancora in cerca di un’identità pianificatoria. Ecco che per i giudici “le infrastrutture esistenti – si legge in una delle sentenze, peraltro simili nell’ossatura giuridica – non erano sufficienti per considerare i fondi come urbanizzati, specie nell’ottica di uno sfruttamento industriale-commerciale”. Come dire che la proprietà “non era dunque legittimata a contare sul fatto di poter edificare i suoi fondi con i propri mezzi in un prossimo futuro”.