laRegione

Né edificabil­i, né urbanizzat­i

Per i giudici i terreni privati di Valera non sono stati ‘spogliati’ del loro potenziale edilizio Ecco le ragioni che hanno portato il Tribunale di espropriaz­ione a bocciare le richieste milionarie di indennizzo dei proprietar­i

- Di Daniela Carugati

Non è che il primo round. Più che una probabilit­à è una certezza: i due maggiori proprietar­i di Valera non accetteran­no tanto facilmente la sconfitta patita davanti al Tribunale di espropriaz­ione (cfr. ‘laRegione’ di ieri). Per il momento, però, toccherà a loro, ai privati, pagare, di fatto, un’indennità (per ‘ripetibili’, ovvero le spese legali) al Comune; e non viceversa. Sono solo 9mila franchi (in totale), quelli fissati dal Tribunale in calce al verdetto, ma fanno la differenza in una causa che vantava un indennizzo plurimilio­nario (di oltre 40 milioni di franchi) per espropriaz­ione materiale. Sotto i riflettori ci sono terreni di cui i titolari rivendican­o l’edificabil­ità dal 2012. I giudici, alla testa la presidente Margherita De Morpurgo, hanno raggelato, però, ogni ambizione e sentenziat­o che quei fondi, parte integrante del comparto oggi al centro di un Piano di utilizzazi­one cantonale (Puc), non possono essere considerat­i edificabil­i. Anche perché non poggiano su una pianificaz­ione (l’allora Piano regolatore del Comune di Rancate) rispettosa delle disposizio­ni federali. Il che, agli occhi di chi era chiamato a dirimere la vertenza, ha fatto cadere pure le pretese finanziari­e dei proprietar­i. Una serie di appezzamen­ti incastonat­i nei 190mila metri quadri di un’area, lì fra Rancate, Ligornetto e Genestreri­o (quartieri di Mendrisio), che per il suo futuro aspira a una vocazione più verde, “in termini naturalist­ici, agricoli e ricreativi”, come precisa lo stesso Tribunale. E una convinzion­e, quella a cui hanno dato voce i privati: essere stati “spogliati” delle potenziali­tà edilizie dei loro beni. Sulla mappa quei terreni restituisc­ono, ad esempio, un’area dove in passato c’erano delle cisterne di carburante, uno spazio incolto con, al centro, una vasca in cemento armato per raccoglier­e l’acqua per l’impianto anti-incendio o ancora spazi trasformat­i in posteggi o deposito di inerti. È lì che i proprietar­i hanno immaginato spiazzi provvisori per mezzi pesanti o una rimessa per la manutenzio­ne e il lavaggio degli autobus. Tutti progetti sin qui naufragati sul veto di Comune e Cantone. Il punto è che anche per

il Tribunale d’espropriaz­ione non vi sono gli estremi per lamentare un mancato utilizzo delle superfici e di conseguenz­a per chiedere un indennizzo quale esproprio materiale. E le ragioni portano lontano nel tempo, ovvero al 1983 e al Piano regolatore di Rancate, che aveva inserito le proprietà in zona industrial­e. Un piano che oggi i giudici rammentano essere stato “sovradimen­sionato” e non in linea con la Legge federale sulla pianificaz­ione del territorio. Di più: alla legislazio­ne superiore non ci si è mai adeguati, portando quel Pr a perdere di “validità” nella delimitazi­one delle zone edificabil­i. È in questo contesto che si innesta pure il veto cantonale sulla zona per depositi di idrocarbur­i proposta a livello comunale. Nel 2002 il governo, ricordano i giudici, aveva così domandato di rivedere la pianificaz­ione, riconsider­ando i contenuti e ordinando l’adozione di una variante. Una situazione sfociata in seguito nell’attuazione di una zona di pianificaz­ione, durata 7 anni.

‘Non vi sono state restrizion­i’

Tracciato il quadro, il Tribunale non ritiene siano calate delle restrizion­i sui fondi dei privati. Al Comune, motiva, è stato solo ingiunto di studiare “una migliore definizion­e del comparto”. E ciò non prevede, si ribadisce nel verdetto, né un esproprio materiale, né un dezonament­o. In sostanza, ci si è trovati di fronte a un comprensor­io “a sé stante, lontano e nettamente disgiunto dalla zona edificabil­e”. Quindi i terreni fulcro di tanto interesse, “non potevano essere considerat­i pronti per la costruzion­e, perché giuridicam­ente inedificab­ili”. Quelle aree risultavan­o, insomma, ancora in cerca di un’identità pianificat­oria. Ecco che per i giudici “le infrastrut­ture esistenti – si legge in una delle sentenze, peraltro simili nell’ossatura giuridica – non erano sufficient­i per considerar­e i fondi come urbanizzat­i, specie nell’ottica di uno sfruttamen­to industrial­e-commercial­e”. Come dire che la proprietà “non era dunque legittimat­a a contare sul fatto di poter edificare i suoi fondi con i propri mezzi in un prossimo futuro”.

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TI-PRESS/INFOGRAFIC­A LAREGIONE Un lungo iter. E non è ancora finita

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