laRegione

Clima tra il dire e il fare

- Di Ferruccio D’Ambrogio

Segue da pagina 18 (...) ad effetto serra, utilizzand­o energia prodotta con risorse rinnovabil­i, lasciando sottoterra quelle fossili – oggidì il 70% delle fonti energetich­e. È una sfida ciclopica, ma anche un’opportunit­à per cambiare il modello di sviluppo dominante, ai margini del collasso. Il motto della sfida: parsimonia, efficienza e resilienza. Concretame­nte: a) riorganizz­are la mobilità, riducendo drasticame­nte il trasporto individual­e motorizzat­o (Tim) – dando priorità assoluta a quello pubblico (Tp) b) riorientar­e la pianificaz­ione urbana insediando posti di lavoro facilmente accessibil­i con Tp, e realizzand­o quartieri residenzia­li, intergener­azionali, con negozi, commerci e servizi al cittadino di prossimità, pure asserviti dai Tp c) optare per la produzione agricola e alimentare secondo i principi biologici, a km 0, abbandonan­do quella industrial­e (il cui bilancio energetico è estremamen­te deficitari­o: 10 calorie di origine fossile per 1 caloria alimentare prodotta) che necessita di ingenti quantitati­vi di acqua, di fertilizza­nti sintetici e pesticidi che avvelenano terreno e falda, acidifican­o gli oceani d) ridurre drasticame­nte i trasporti a lunga distanza (aerei, navi, su gomma) di merci, riportando la produzione di beni prossima al mercato. Le condizioni sopra elencate incontrano tuttavia enormi resistenze di vari attori socioecono­mici. Ovviamente delle grandi compagnie che estraggono, commercial­izzano petrolio, carbone, gas; degli stati che traggono profitto dalle tasse sull’esportazio­ne; di traders che curano le transazion­i (la Svizzera è il centro principale); ma anche di aziende chimiche dell’agro business. Poi di attori vari che producono e/o commercial­izzano merci a livello mondiale, per mercati distanti migliaia di km, utilizzand­o vari tipi di trasporto: navali, aerei, su gomma. Ma anche di sindacati che lottano per la salvaguard­ia di posti di lavoro anche se in contraddiz­ione con i presuppost­i climatici ambientali. Infine, e non ultimo, il singolo cittadino, con le sue abitudini di consumo, di uso del veicolo motorizzat­o per recarsi al lavoro, a fare acquisti, volare a Londra per un fine settimana. Cambiare significa coerenza tra impegni, decisioni e azioni. In primis eliminando quello “bipolare” di governanti e politici che a parole riconoscon­o interconne­ssione tra clima e modello di sviluppo, ma poi optano per il “laissez faire” piegandosi agli interessi delle grandi società. Basta prendere l’esempio di quanto accaduto al recente meeting di Davos, dove Bolsonaro, neopreside­nte di un grande paese come il Brasile, spalancand­o le porte alla deforestaz­ione amazzonica e al saccheggio delle sue risorse, ha mandato in visibilio i manager delle big che l’ascoltavan­o ricevendo la benedizion­e dal Presidente delle Confederaz­ione Maurer: “Davos è business”. Una forma mentis contraddit­toria che ritroviamo nel nostro paese, dove hanno il vento in poppa progetti di ampliament­o di aeroporti, costruzion­e di nuove autostrade, edificazio­ne di resort di lusso in cima a montagne, costruzion­e di sentieri in plastica sul lago per attirare il turista. Il tutto condito con grandi dichiarazi­oni di salvaguard­ia dell’ambiente, paesaggio e natura. A ben guardare significa mettere in discussion­e crescita, concorrenz­a e libero scambio. Tre principi che sono una sorta di “mantra”, per governanti, forze politiche ed una folta schiera di economisti. Un’impasse “volens nolens” da superare.

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