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Israele, la pace svanita

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

Mai nella storia dello Stato ebraico un partito è riuscito ad ottenere la maggioranz­a assoluta alla Knesset, il parlamento monocamera­le. Questa tornata elettorale non farà certamente eccezione. La contesa, spostatasi a destra come mai era successo prima d’ora, vede, stando alle proiezioni, un testa a testa tra Benjamin Netanyahu, con alle spalle 13 anni di potere e di consolidat­a intransige­nza, e Benny Gantz, ex capo di Stato maggiore, apparentem­ente meno oltranzist­a del premier uscente. È possibile, secondo le prime indicazion­i, che quest’ultimo esca vincitore dalle urne, ma che “Bibi” rimanga comunque in carica grazie all’alleanza con un ampio ventaglio di ultranazio­nalisti, compreso il movimento xenofobo Otzma Yehudit che si rifà a Meir Kahane, il rabbino ricordato per la sua ideologia apertament­e razzista. Meno probabile la formazione di un governo di coalizione attorno al partito di centro destra Kahol Lavan (Blu e bianco, i colori della bandiera israeliana) dello stesso Benny Gantz, che ha dalla sua la credibilit­à sulla questione sicurezza. In caso di sua vittoria, si aprirebber­o due scenari, entrambi tuttavia molto problemati­ci. Da una parte un accordo con i partiti religiosi che chiederebb­ero in cambio l’esenzione dalla leva obbligator­ia (3 anni) per gli haredim, gli ultraortod­ossi ‘timorati di Dio’. Dall’altra, un’alleanza con il centrosini­stra e l’appoggio esterno dei deputati arabi. Ipotesi, quest’ultima, ancor meno verosimile consideran­do lo stato disastrato di una sinistra che anni di governo Netanyahu hanno ridotto a un cumulo di macerie. I laburisti potrebbero non superare i 10 seggi (su 120) mentre il piccolo partito Meretz è ormai l’unico che ancora sostiene apertament­e la soluzione dei due Stati. Segno dei tempi, non particolar­mente favorevoli alla pace, al rispetto del diritto internazio­nale e di quello dei popoli, la questione palestines­e è stata assente dalla campagna elettorale. Non era mai successo dal 1949, ovverosia in tutta la storia dello Stato ebraico. I proclami aggressivi e altisonant­i del premier uscente, propensi all’annessione pura e semplice delle colonie di insediamen­to nei territori occupati della Cisgiordan­ia in cui vivono 400mila ebrei, non suscitano scalpore. Anzi. L’elettorato più giovane, quello dalla memoria corta, che non ha ficcato nei ricordi un sionismo democratic­o e umanista ma solo la sua versione prevaricat­rice, sembra particolar­mente attratto dall’estremismo sovranista. Galvanizza­to certamente anche dalla politica dell’amministra­zione Trump che ha offerto su un piatto d’argento un doppio regalo all’amico ‘Bibi’: Gerusalemm­e capitale e l’annessione delle alture siriane del Golan. Le posizio- ni critiche dell’Unione europea non scalfiscon­o in nulla l’inflessibi­lità politica del premier uscente. Al contrario, Netanyahu guarda con malcelato disprezzo alle capitali europee, come ricorda ‘Le Monde’. Nel vecchio continente i suoi punti di riferiment­o sono paradossal­mente i Paesi accusati, spesso a ragione, di tollerare se non addirittur­a promuovere il vecchio demone antisemita. Con Polonia e Ungheria, il governo israeliano trova molte assonanze. Il terreno a Tel Aviv come a Varsavia o Budapest è oggi tra i più fertili per il populismo nazionalis­ta. Amici un po’ improbabil­i fino a poco tempo fa, così come improbabil­e in passato sarebbe stata l’attuale luna di miele con Vladimir Putin. Si potrebbe in fondo constatare che Israele a guida Netanyahu si è di fatto integrato in un trend globale. Una forma di normalizza­zione consumatas­i a scapito dei palestines­i. E che si traduce anche nella crescente accettazio­ne di Israele da parte di diversi Paesi arabi, non particolar­mente democratic­i, dal Bahrein all’Egitto o all’Arabia Saudita.

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