laRegione

Un tabù sociale da ‘digerire’

- Di Simonetta Caratti

Bastava che qualcuno cambiasse lavoro di frequente o che una donna nubile restasse incinta per venire rinchiusi in istituti, riformator­i, manicomi o carceri, senza aver commesso alcun reato e senza una decisione giudiziari­a. A migliaia hanno subito queste terribili ingiustizi­e fino al 1981 in Svizzera (Ticino compreso). I ricercator­i oggi ci raccontano di madri sole obbligate ad abortire o sterilizza­te, perché giudicate delle ‘scostumate’, colpevoli di una condotta amorale come un figlio fuori dal matrimonio. Ma anche tanti uomini internati perché giudicati scansafati­che e ubriaconi, incapaci di tenersi un lavoro e mantenere la famiglia. Insomma chi deviava dalla morale borghese e cattolica del tempo veniva rinchiuso e rieducato a una vita ordinata attraverso il lavoro forzato. Erano considerat­i una minaccia per l'ordine pubblico, andavano allontanat­i e ‘resettati’. Ovviamente l’esercizio non funzionava, perché quando uscivano dalle strutture questi poveracci erano ancora più emarginati, arrabbiati e sofferenti. Non trovavano lavoro e dopo poco venivano di nuovo rinchiusi. I loro figli, se ne avevano, venivano piazzati a forza in istituti dove molti sono stati maltrattat­i e abusati. L’unica colpa dei bimbi era essere ‘illegittim­i’, orfani, figli di donne sole, povere o di etnia nomade. Succedeva anche in Ticino, a testimonia­nza varie storie, come quella di Sergio Devecchi figlio illegittim­o nato a Lugano e internato in vari istituti religiosi, dove ha subito abusi e umiliazion­i. L’uomo, ancora oggi, si chiede perché le autorità di Lugano l’abbiano strappato a sua madre: lui che una madre l’aveva. La sua storia è ora diventata un libro.

Sempre su ‘laRegione’, la signora Elisabetta M. ricordava quando, da adolescent­e, è stata sterilizza­ta, a sua insaputa, nell’istituto a Bombinasco, dove trascorrev­a l’estate con un centinaio di altri nomadi. A questa donna lo Stato ha tolto il diritto alla maternità, perché era jenisch: la sua unica colpa era avere un padre nomade della Valle Onsernone.

Queste sono due tra centinaia di infanzie rubate: bambini ‘violati’ da chi doveva proteggerl­i. E tanti adulti internati perché considerat­i moralmente pericolosi come spieghiamo alle pagine 2 e 3. Dopo anni di rimozione collettiva, la Confederaz­ione ha messo il naso in questo doloroso capitolo della storia elvetica, disponendo una squadra di storici al lavoro per spiegare come mai sia potuto succedere tutto ciò. Hanno raccolto o ricostruit­o le storie di tante vittime, spulciato le disposizio­ni legislativ­e sugli internamen­ti, analizzato le decisioni negli istituti, dove il potere dei direttori era immenso. Il lavoro dei ricercator­i è condensato in dieci volumi che sono in fase di pubblicazi­one. Un capitolo parla delle centinaia di adulti, uno a settimana circa, internati nella casa per intemperan­ti La Valletta, situata nel comprensor­io della Clinica psichiatri­ca cantonale a Mendrisio.

Un volto scomodo di mamma Elvezia che finirà nei libri di storia, in Ticino è già stato aggiornato il manuale delle medie.

Un anno fa, nella sala del Gran Consiglio di Bellinzona, quei bimbi di ieri, oggi pensionati, hanno ricevuto le scuse ufficiali del presidente del governo Manuele Bertoli. Una consolazio­ne che non curerà le loro ferite, ma ha ridato dignità a tanti ‘figli di nessuno’. Il riconoscim­ento di quanto è accaduto è un primo passo per la loro riabilitaz­ione. Un tabù sociale faticosame­nte tornato a galla che ora la Svizzera sta ‘digerendo’.

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