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La Casa degli ‘emarginati’ Cattivi cittadini da educare

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Donne incinte e senza marito, vagabondi, alcolizzat­i e oziosi. Chi deviava dalla morale borghese e cattolica del tempo veniva rinchiuso e rieducato a una vita ordinata attraverso il lavoro. È la sorte toccata a centinaia di adulti, uno a settimana circa, internati nella casa per intemperan­ti La Valletta, situata nel comprensor­io della Clinica psichiatri­ca cantonale a Mendrisio. In media 43 l’anno, dal 1932 al 1948, per poi crescere negli anni Sessanta e crollare a 8 ammissioni nel 1974, quando la struttura si avviava alla chiusura. Quindi 1’800 decisioni circa di internamen­to.

Gli uomini finivano alla Valletta (70 posti circa), mentre le donne all’ospedale psichiatri­co di Mendrisio, assieme alle malate, perché per loro mancava una struttura. C’è anche chi ha subito sterilizza­zioni forzate. I figli fuori dal matrimonio venivano affidati a una famiglia o messi in istituto.

Chi erano le vittime delle misure coercitive in Ticino, quali i loro diritti, chi decideva. Risponde la storica Vanessa Bignasca che ha recuperato, grazie ai dossier personali, questo pezzo di storia ticinese. La storica lavora per la Commission­e peritale indipenden­te Internamen­ti amministra­tivi, voluta dal Consiglio federale. In questi mesi stanno uscendo i primi studi che ricostruis­cono quegli anni, tra storie di vittime, quadri legislativ­i, funzioname­nto di alcuni istituti.

«Gli internamen­ti amministra­tivi tra il 1929 e il 1981 sono stati ordinati in Ticino in base alla ‘Legge sull’internamen­to degli alcolizzat­i e dei vagabondi’, che lasciava ampi margini di apprezzame­nto e concerneva ‘alcolizzat­i’, ‘vagabondi’, ‘oziosi’, ‘individui dalla ‘vita dissoluta’’, donne colpevoli di una condotta morale compromett­ente, come le ‘prostitute’ o chi aveva un figlio fuori dal matrimonio. L’internamen­to era promosso ai fini di una rieducazio­ne morale e veniva deciso da un funzionari­o del Dipartimen­to degli interni, quale autorità di vigilanza sulle tutele», spiega Bignasca. Chi deviava da un comportame­nto normale e a causa dell’alcool causava schiamazzi o risse e non garantiva il sostentame­nto economico al proprio nucleo familiare perché senza lavoro, veniva segnalato al Cantone. Si poteva ricorrere al Consiglio di Stato. Probabilme­nte un’autorità giudiziari­a avrebbe garantito una maggiore protezione. Norme rimaste in vigore per mezzo secolo: «Non sono state mai riviste, non c’era un vero dibattito politico».

‘Pagati’ 10 centesimi al giorno

La quotidiani­tà alla Valletta era scandita dall’astinenza dall’alcol e dal lavoro, concepito quale mezzo di rieducazio­ne, finalizzat­a al reinserime­nto in società. Le giornate – che iniziavano alle 5.30 e finivano alle 21 – erano scandite da un serrato programma di lavoro, che non doveva lasciare spazio a devianze. «L’alcolismo era ritenuto un vizio da estirpare attraverso una rieducazio­ne. Si affermerà come malattia da curare dagli anni 50», spiega la storica.

Gli internati venivano ricompensa­ti con una ‘paga’ simbolica di dieci centesimi a giornata. «Inizialmen­te erano prepondera­nti i lavori agricoli e in laboratori artigianal­i (per la riparazion­e di scarpe, la produzione di materassi, destinati sia alla Valletta sia alla clinica psichiatri­ca con oltre 500 posti letto), che permetteva­no di finanziare le esigenze dell’istituto. In seguito gli internati furono anche adibiti a lavori di manutenzio­ne di parco e immobili della clinica e potevano lavorare in regime di semi-libertà. Erano costanteme­nte sorvegliat­i da ‘guardiani’ e alloggiava­no nei dormitori».

Gli internati alla Valletta erano quasi tutti ticinesi, c’era il 20enne come il 60enne internato per la nona volta. Il tempo di permanenza massimo era di 2 anni. Una volta fuori? La storica si limita a commentare: «C’era un rilevante tasso di recidiva».

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