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‘Mio padre, paracetamo­lo per l’anima’

Intervista a Cristiano De André, il 4 maggio a Lugano con ‘Storia di un impiegato’: ‘Quel disco è il segno della disaffezio­ne al potere, da combattere a colpi d’arte’

- Di Beppe Donadio

Il progetto è nato nel 2018, quarantaci­nque anni dopo i venti del maggio francese. Ridare vita a ‘Storia di un impiegato’, album di Fabrizio De André pubblicato nel 1973, sospeso tra gli ideali sessantott­ini e quelli che saranno poi definiti “anni di piombo”, è per il figlio Cristiano un atto dovuto. «Riportarlo in vita è dare un segno di questa rinnovata disaffezio­ne al potere, qualsiasi esso sia. Quel potere che “non è mai buono”, come diceva mio padre, perché deve sempre schiacciar­e qualcuno». Quarantase­i anni dopo, l’eredità di quel concept album è raccolta dal primogenit­o in un live che arriva sabato 4 maggio al Palacongre­ssi di Lugano (www.horangmusi­c.com, www.biglietter­ia.ch). Non prima di essere informati, sui contenuti di questo salto nel tempo, dal protagonis­ta stesso nel giardino della Rsi, in un pomeriggio di prima, convinta primavera, all’alba dello showcase serale.

‘Ci avremmo lavorato insieme’

Quello di Lugano è un doppio concept. Un primo tempo che è per intero ‘Storia di un impiegato’, con filmati di quel maggio ’68 gestiti da Roberta Lena, regista dello spettacolo. «Il secondo tempo, invece – spiega Cristiano – racconta il potere fino ai giorni nostri, declinato in canzoni come ‘La domenica delle salme’, ‘Smisurata preghiera’, ‘Don Raffaè’, lo squallore della guerra, della mafia e del potere individual­e, del bisogno di soggiogare l’altro, anche in famiglia». Con Osvaldo Di Dio, Davide Pezzin, Davide Devito e Riccardo Di Paola, il De André figlio porta il disco (arrangiato in origine dal non ancora Premio Oscar Nicola Piovani) «da tutt’altra parte, con suoni che arrivano a Björk, Radiohead, stravolto fino a diventare un’opera rock, un concept ancora più forte dell’originale». Una «world music» che il padre, ne è certo, avrebbe apprezzato: «Nell’ultimo periodo mi aveva affidato molti suoi arrangiame­nti, voleva spingersi oltre. Credo che se fosse ancora qui, a questo progetto avremmo lavorato insieme». In sua assenza, il live è concepito insieme a Stefano Melone, già con Cristiano in ‘Scaramante’ e ‘Sul confine’.

Gli anticorpi della società

«Il sogno anarchico, il sogno utopista rimane». Cristiano cita i gilet gialli in Francia e, in Italia, i 5Stelle, «movimento interessan­te che più si avvicina a quegli ideali. La cosa non riguarda Salvini, ovviamente». Cita «il tumulto, la voglia di tornare alle cose vere e all’arte, che è contro il potere e che dal potere è stata annientata. Forse è arrivato il momento di uscire da questo secondo Medioevo sfornando arte, occupandoc­i della nostra anima, dandole il pane», prosegue. «Mio padre, lo dico spesso, è una Tachipirin­a per l’anima, quello che ha scritto fa bene». E per uscire dal Medioevo una mano dovrebbero darla anche i cantautori, «che erano gli anticorpi della società, della politica, e dovrebbero tornare ad esserlo».

I tributi e la Pfm, 40 anni dopo

Nel ventennale della morte di Fabrizio De André i tributi si accendono come stelle. L’ultimo è ‘Faber Nostrum’, nel quale Motta – per citarne uno – si è preso ‘Verranno a chiederti del nostro amore’, che di ‘Storia di un impiegato’ è il momento più popolare. «Vedo giovani che scoprono mio padre e gli si aggrappano», per l’essere, quel padre, «una persona di una coerenza incredibil­e, portatore di un’arte «sempre alta, non intaccata dal tempo. D’altra parte, quando parli dell’uomo con la sua profondità è difficile che il tema possa scadere». Ancor più in un disco nel quale «c’è una voglia di cambiare il mondo in maniera pacifica, un sogno anarchico che forse è stato il più forte della storia».

L’affinità fisica e vocale con il genitore («sento la voce di mio padre quando canto, sta tutto in una manciata di cromosomi») è oggi amplificat­a dagli annunciati concerti con la Pfm (Arena di Verona, 29 luglio, poi la Sardegna). “Bisognava convincere lui”, raccontò alla ‘Regione’ Franz Di Cioccio ricordando il live del 1979, autodefine­ndosi “il pazzo” che suggerì a Fabrizio che in America si facevano tour così. “Si fidò di noi”. Ora tocca a Cristiano: «Riproporci con la Pfm è un’emozione anche per noi». Non c’è ancora una scaletta, tutto è nato un mese fa.

Genovese con accento romano

«Fosse solo l’accento romano, quello può anche starci, perché Luca Marinelli è stato bravissimo. Il discorso è proprio la fiction, troppo superficia­le». Messo da parte il sentir parlare un genovese come si parla a Trastevere, «credo che mio padre si meritasse qualcosa di più» dice il figlio del ‘Principe libero’, biopic sufficient­emente spietato sul Faber uomo, più che sul Faber artista. «Serviva un regista importante, che scendesse nel profondo della follia creativa, di cui in questo lavoro non c’è traccia. Hanno tralasciat­o le cose più importanti. Io mi sono tolto dal progetto, che hanno voluto fare per forza».

Meraviglio­so dolore

Non si toglie, Cristiano, dal racconto di un rapporto padre-figlio che sulla stampa italiana è riemerso di recente in tutta la sua complessit­à, limitandos­i a un dolceamaro «diventiamo adulti perché riusciamo a superare questi conflitti. Bisogna accettare il dolore meraviglio­samente, trasforman­dolo in dolore meraviglio­so. Una volta accettato, allora lo si può vivere con una certa pace. Ho cominciato a stare meglio dopo i 45 anni. Come vedi, è qualcosa che richiede tempo».

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‘Sento la sua voce quando canto, sta tutto in una manciata di cromosomi’

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