Ribellione e irrequietezza, secondo Mario Martone
«Eccomi qua. Facciamo la nostra intervista?», arriva all’orecchio, con melodica cadenza partenopea, la domanda dall’altro capo della cornetta. E come tirarsi indietro? Mario Martone, regista di teatro e cinema, nonché sceneggiatore, è ospite oggi degli Eventi Letterari con l’incontro “Tra giovani favolosi e ribelli” (Monte Verità, 17.30). Non ci siamo fatti sfuggire l’occasione e lo abbiamo intervistato, tenendo come chiodi fissi la domanda su che cosa sia ribellione e il suo «incontro fatale con Leopardi». Chi è, innanzitutto, Mario Martone? In pillole: nato a Napoli nel novembre del 1958, il regista esordisce nel teatro: il suo primo spettacolo è “Faust o la quadratura del cerchio”, del 1976. Nel 1986, il suo gruppo teatrale Falso Movimento si fonde con Teatro dei Mutamenti (di Antonio Neiwiller) e Teatro Studio (di Toni Servillo). Dalla fusione nascono i Teatri Uniti. “Morte di un matematico napoletano” è il suo primo lungometraggio che gli è valso il Gran Premio Speciale della Giuria a Venezia, nel 1992. Scorrendo l’ultima filmografia, si leggono i titoli “Noi credevamo” del 2010 e “Il giovane favoloso” (2014) che racconta di Giacomo Leopardi. Nel 2018, durante la rassegna veneziana, ha presentato “Capri-Revolution”. I suoi ultimi tre film (cardini dell’appuntamento di oggi) sono stati definiti una “trilogia dei giovani ribelli”, attraversando l’epica antieroica del Risorgimento nel primo, la disperata vitalità del poeta di Recanati nel secondo e, infine, il desiderio di emancipazione di una ventenne negli anni Dieci.
Nella scia del tema degli Eventi, perché sono importanti i maestri?
Difficile spiegare il perché, cioè è abbastanza evidente. Non ci sarebbe nulla, se non ci fosse una catena d’insegnamenti che fa sì che la storia umana proceda. Per cui è chiaro che la presenza di maestri è ciò che ci guida e questi possono essere di tanti tipi. Una vita può essere aiutata e illuminata da un professore, ma un maestro può essere anche un compagno di strada, o una figura del passato – di cui si sono letti i libri, ascoltato la musica, visti i film… –, che in un certo senso mostra una strada. È chiaro che nulla esisterebbe senza la presenza di maestri, che pongono domande, cui spetta a noi trovare risposte.
Quali sono i suoi?
Il mio maestro è Leopardi. Il mio incontro con lui è stato molto importante, prima a teatro [nel 2011 ha messo in scena le “Operette morali” leopardiane; ndr] e poi al cinema [con “Il giovane favoloso”; ndr]. In qualche modo, l’incontro con Leopardi è stato fatale. Per certi versi potrei dire che tutti i film che ho fatto posso definirli leopardiani; sono tutti mossi da un sentire leopardiano. Un incontro che getta luce sia sui film precedenti “Il giovane favoloso”, sia su quelli successivi. “CapriRevolution” è un film che nasce da Leopardi, dalle sue domande.
Oltre al poeta dell’Infinito, quali sono o sono stati i suoi maestri?
Molto importanti sono artisti che sono stati miei compagni di strada, penso a Carlo Cecchi, Antonio Neiwiller… non maestri-padri, ma fratelli. Al cinema ho sempre amato, ed è stato un faro, il lavoro di Rossellini, il suo metodo. In lui riconosco quell’irrequietezza che sento, quel desiderio di movimento, ricercare forme e temi nuovi… In questo senso è stato un riferimento.
I due film che ha citato prima, insieme a ‘Noi credevamo,’ sono definiti una ‘trilogia.’ Che cosa raccontano?
Sono tre storie ambientate nel passato. E sono storie di ribelli. Personaggi animati dallo spirito dell’illusione della ribellione (per usare un termine caro a Leopardi); anche se c’è però il frantumarsi dell’illusione e la rinascita in una nuova forma. Come dire, sia la nascita, la spinta dell’illusione e la sua frantumazione sono temi leopardiani, che si ritrovano nei tre film, molto diversi l’uno dall’altro. Non è stato un progetto intenzionale, ma un procedere, in cui ha avuto importanza anche il teatro.
Cinema e teatro, nella sua ricerca, sono dunque complementari…
È un mio procedere. Una forma che somiglia all’irrequietezza che sento dentro, che poi diventa anche formale: non mi accontento di lavorare solo al cinema o solo al teatro. Un’irrequietezza che ho sempre sentito, fin da adolescente e che in qualche
modo muove ancora le mie scelte.
‘Gioventù e ribellione’ è binomio quasi topico. Cos’è per lei ribellione? Quali sono le ribellioni di oggi?
M’interessa molto la ribellione come processo, innanzitutto, individuale; che è la matrice di ogni ribellione. È una reazione a una delle tante gabbie che la vita ci mette davanti, di carattere politico, sociale, familiare, emotivo, sentimentale… Chi sente la presenza di queste gabbie, è spinto a romperle, le proprie o quelle degli altri. Questa spinta è l’aspetto che più m’interessa e che, nel nostro tempo, credo sia importante da coltivare. Poi, come la ribellione riesca a farsi movimento, è un discorso complesso. Decenni fa c’era la comodità delle ideologie, in cui ci si sedeva, si poteva pensare di scatenare la ribellione in gruppo, accodandosi. Oggi questo non è dato. Oggi, è molto importante la responsabilità individuale.
A costo di sembrare distaccati dalla realtà, che momenti stiamo vivendo?
Di grande confusione. Dominati da ribellioni che facilmente mostrano il loro rovescio: non sono tese alla costruzione, all’incontro positivo, ma dominate da rabbia, odio, insicurezza, paura e risentimento… ribellioni che creano gabbie. A maggior ragione, bisogna rispondere individualmente, con le proprie scelte.